Perché parlare, oggi, della nave Vlora?
Gli estratti che seguono sono parte del saggio “Genere, ‘razza’ e crisi Albanese a Telenorba”, contenuto nel volume. Il Colore della Nazione, a cura di Gaia Giuliani (Mondadori education, 2015).
Il saggio, frutto di una ricerca svolta presso gli archivi di Telenorba tra il 2007 ed il 2008, si concentra su di un arco temporale che va dal 1990 al 1999, proponendosi di analizzare le rappresentazioni dell’immigrazione albanese da parte dei media pugliesi, ma anche di individuare gli effetti di tale immigrazione sulla rappresentazione della Puglia fornita dalle emittenti locali attraverso report, inchieste di tipo giornalistico, programmi di approfondimento e di intrattenimento comico.
L’arrivo degli albanesi nel 1990 è equivalso per la Puglia ad uno scossone che l’ha destata un lungo torpore dando luogo a un prolifico processo di ripensamento dell’identità locale: per i pugliesi, difatti, parlare degli albanesi ha significato anche inevitabilmente parlare di sé, avendo finalmente un’occasione per farlo.
Le emittenti locali manterranno anche ad emergenza finita un’attenzione costante verso la questione dell’emigrazione dall’Albania: nella nuova veste di testimoni e cronisti di un evento storico epocale, parallelamente al progressivo processo di ‘razzializzazione’ degli albanesi in atto nel corso del decennio, i pugliesi coglieranno l’opportunità per rinegoziare la propria posizione simbolica all’interno dei confini della geografia italiana immaginaria.
Inizia lo show
Gli albanesi entrano in scena a Telenorba con un’edizione straordinaria dedicata dal TG della rete all’arrivo di 4803 profughi portati a Brindisi su navi ONU in seguito all’occupazione delle ambasciate di Tirana del 2 luglio del 1990. La redazione giornalistica di Telenorba trasmette in diretta dal campo militare di Restinco, allestito per dare assistenza ai rifugiati politici. Il cronista riporta come nel campo ci sia una grande frenesia: una parte degli albanesi è «impegnata nella vestizione», l’altra è «nell’ufficio registrazione anagrafica perché lì si registrano i loro nomi, la loro condizione, i loro desideri e quello che intendono fare»[1].
Il cronista intervista due donne e un uomo per capire le ragioni della loro fuga dall’Albania e le loro condizioni di vita precedenti, ma anche per capire quali piani abbiano e dove andranno di lì: i profughi sono infatti liberi di muoversi e già nelle ore successive potrebbe essere allestito un servizio di autobus «per consentir loro di visitare la città»[2].
«Un camping organizzato»[3], così il cronista definisce allegramente il campo di Restinco, lo stesso che nel giro di qualche anno sarà trasformato in uno dei tanti luoghi di contenimento degli immigrati in Italia divenendo, a partire dal 1999, prima un Centro di permanenza temporanea (CPT), poi un Centro di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) e infine un Centro di identificazione ed espulsione (CIE). Sebbene i giovani intervistati capiscano l’italiano, il conduttore è aiutato nell’opera di mediazione linguistica da un soldato calabrese, selezionato insieme ad altri in quanto di etnia arbëreshë.
Sul termine immigrazione
Per l’occasione delegazioni da varie comunità arbëreshë, sparse tra Puglia, Calabria e Sicilia, arrivano a Restinco per portare conforto di vario tipo agli esuli. Il cronista presenta quindi la comunità arbëreshë di San Marzano di Puglia, venuta per accogliere e «dare ospitalità ai fratelli albanesi che […] dopo 500 anni, per corsi e ricorsi storici, rifanno la stessa strada»[4]. (…)
I ventisei minuti di diretta dal campo di Restinco rivelano la totale novità dell’evento per la Puglia. Non esiste ancora un linguaggio specifico per l’immigrazione in Italia e vengono usati termini mutuati da altre situazioni e che evocano immaginari diversi: il cronista parla infatti quasi religiosamente di «venuta degli albanesi», come se si trattasse dell’inizio di una nuova era, o di «vestizione degli albanesi», come per i re o le cerimonie solenni. Rispetto all’arrivo degli esuli sembrano prevalere curiosità, eccitazione e una sostanziale mancanza di conflittualità: le difficoltà organizzative sono state risolte in fretta, il campo militare è stato allestito in pochi giorni e «lo status giuridico dei cittadini albanesi sul suolo italiano non è un problema» poiché dipenderà, come spiega il prefetto di Brindisi, «dalla loro volontà, a seconda che chiedano il visto o l’asilo politico»[5].
L’attenzione del cronista è tutta rivolta al presente e al futuro degli albanesi e si sofferma sul cibo somministrato e sulle condizioni fisiche e le aspirazioni degli intervistati. Contemporaneamente l’esibizione dei corpi degli esuli, uomini, donne e bambini, come corpi vulnerabili perché deprivati e bisognosi di cibo e cure colloca i pugliesi nel ruolo di tutori paterni, compito che anche l’emittente Telenorba dichiara di volersi assumere rassicurando le famiglie in Albania con le proprie immagini. I ringraziamenti degli albanesi al governo e agli italiani, «che sono molto, molto umani»[6], chiudono il cerchio e contribuiscono a diffondere l’immagine di un Sud magnanimo, fraterno e di buoni sentimenti, collocabile nel solco del mito degli «italiani brava gente». (…)
Il racconto dei media
Con le immagini degli sbarchi del marzo del 1991 a Brindisi, i telegiornali e i programmi di approfondimento delle reti locali si riempiono di notizie e immagini di profughi: si tratta di una gran quantità di persone, per lo più giovani maschi, ma anche donne e bambini, bisognose di cure di prima necessità. (…) Nel frattempo, nel flusso delle immagini, il corpo degli albanesi è esposto pubblicamente in momenti privati: mentre dorme, mangia, aspetta o non fa nulla ma spesso in situazioni di forzata promiscuità. In un rapporto schizofrenico crescente tra intimità ed estraneità, i telespettatori delle reti locali guardano voyeuristicamente gli albanesi da vicino. Interrogato da Puglia TV sullo stato di salute delle persone sbarcate, un medico informa il Sud Italia seduto a tavola per pranzo dell’altissimo numero di infezioni alle vie genitali riscontrato nella popolazione maschile albanese tra adulti e bambini, e precisa che si tratta di «epididimiti, fimosi e parafimosi»[7].
Al giornalista che chiede «un suggerimento da medico sul da farsi con chi ha contatti con questi albanesi», il medico risponde: «la prima cosa che facciamo quando arrivano qua da noi è un bagno, questi vanno assolutamente lavati»[8]. (…)
Le immagini fanno appello a un senso di responsabilità collettivo: non basta che la popolazione locale sia solidale, essa viene addirittura investita del compito di ‘lavare’ gli albanesi. Mostrati in uno stato di minorità, questi ultimi implicitamente richiamano alla mente la posizione di vantaggio materiale e di tacito privilegio occupata dalla popolazione locale; ed è con il succedersi di inferenze di questo tipo che ha inizio la presa d’atto da parte dei pugliesi dell’occasione unica fornitagli dall’arrivo degli albanesi. La posizione di svantaggio materiale e simbolico degli albanesi mette per la prima volta in mostra la ‘bianchezza’ della popolazione locale, intesa come posizione di privilegio che rende i pugliesi visibili a se stessi come appartenenti ad una categoria ‘razziale’.
In questo senso, la solidarietà umana mostrata nei primi tempi nei riguardi dei profughi diventa ora indirettamente un’occasione per consolidare la propria appartenenza nazionale e razziale: assumersi il compito di ‘badare’ agli albanesi, traghettandoli verso la «civiltà», consente al Sud – Altro dell’Italia, emblema del problema unitario sin dal 1859[9] – di ‘sbiancarsi’, riducendo momentaneamente il divario con il Nord più ‘evoluto’. Richiamando esplicitamente una concezione del tempo lineare e progressiva, gli albanesi vengono visti, secondo una convinzione diffusasi tra la popolazione locale, ‘come eravamo noi quarant’anni fa’.
[1] Edizione speciale TG Norba 24, Telenorba, 10 luglio 1990.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Edizione speciale TG Norba 24, cit.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Telegiornale, Puglia TV, 11 marzo 1991.
[8] Ibidem.
[9] dickie 1996.
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