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Grammatica del lavoro. Politiche dei redditi e salari bassi


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I risultati emersi dal workshop sulle Politiche dei redditi e salari bassi descrivono uno scenario completo e dettagliato di un fenomeno di notevole portata che negli ultimi trent’anni riferisce valori preoccupanti per il nostro Paese. Dalla relazione iniziale svolta da Agostino Megale (CGIL) e dai successivi interventi di Michele Forlivesi (Consigliere del Ministero del Lavoro) e di Manos Matsaganis (Docente del Politecnico di Milano) è emersa una fotografia nitida della situazione salariale in Italia, anche in un’ottica comparata, che ha evidenziato le cause di un andamento opposto a quello delle maggiori economie europee. Dal dibattito successivo sono affiorate possibili traiettorie e linee di intervento future finalizzate, in particolare, ad arginare le conseguenze inflazionistiche legate alle turbolenze sullo scacchiere internazionale.  


Numeri ed evidenze del fenomeno


  • Negli ultimi trent’anni di globalizzazione, tra il 1990 e oggi, l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite: -2,9% in termini reali rispetto al +276,3% della Lituania (il primo Paese in graduatoria), al +33,7% in Germania e al +31,1% in Francia. La frenata del Paese è confermata dall’andamento del Pil dell’Italia: era cresciuto complessivamente del 45,2% in termini reali nel decennio degli anni ‘70, del 26,9% negli anni ‘80, del 17,3% negli anni ‘90, poi del 3,2% nel primo decennio del nuovo millennio e dello 0,9% nel decennio prepandemia, prima di crollare dell’8,9% nel 2020. 
  • L’aumento dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari ha fatto esplodere il costo della vita nei Paesi avanzati colpendo pesantemente soprattutto chi ha redditi più bassi e già di norma spende una quota notevole dei propri guadagni per i beni di prima necessità. Del resto non si vede alcun segno del circolo vizioso tra aumento dei prezzi e dei salari paventato dalle banche centrali. L’Ocse, nel report Prospettive dell’occupazione 2022, sottolinea che i cambiamenti strutturali avvenuti nei mercati del lavoro negli ultimi decenni – rimozione dell’indicizzazione e aumento del potere di mercato dei datori di lavoro – comportano meno pressione al rialzo sui salari. Questo ha lasciato i gruppi a basso reddito più esposti a cali dei salari reali. Tra i Paesi in cui la diminuzione del potere d’acquisto è più pronunciata c’è l’Italia: l‘Ocse prevede che i salari reali scenderanno del 3% in Italia nel corso del 2022, un dato più alto di quello relativo alla media dei paesi dell’area Ocse, pari al 2,3%
  • I mercati del lavoro dei Paesi Ocse sono ripartiti con vigore dopo la pandemia da Covid-19, ma le prospettive mondiali sull’occupazione sono oggi molto incerte poiché la guerra di aggressione condotta dalla Russia contro l’Ucraina pesa sulla crescita mondiale e alimenta l’inflazione, con conseguenze negative sugli investimenti delle aziende e sui consumi privati. Secondo l’Employment Outlook 2022, la crescita dell’occupazione potrebbe presto rallentare, mentre i forti aumenti dei prezzi dell’energia e dei prodotti di base hanno scatenato una crisi legata al costo della vita. In Italia l’impatto del Covid sul mercato del lavoro è stato attutito dall’uso estensivo della cassa integrazione. Il mercato del lavoro ha continuato a migliorare nei primi mesi del 2022 e il tasso di disoccupazione è calato al 7,9% a luglio 2022, in ogni caso ben al di sopra della media Ocse del 4,9%. A giugno 2022, il tasso di occupazione si attestava al 60,1%, pari a 1,1 punti percentuali in più rispetto a dicembre 2019. Nonostante i dati non sconfortanti del mercato del lavoro, la crescita del salario nominale rimane debole in Italia.
  • In Italia, gli andamenti dei salari e delle disuguaglianze risultano simili a quelli di altre grandi economie europee (Francia, Germania, Spagna). Nel 2021, la retribuzione globale annua (RGA) media italiana si aggira intorno ai 30.000 euro, mentre la retribuzione annua lorda (RAL) media è pari a circa 29.500 euro (circa 1.700 euro netti al mese). La RGA è sempre più alta della RAL poiché è formata dal totale dei compensi che spettano periodicamente al lavoratore o alla lavoratrice dipendente (per esempio include i buoni pasto, welfare, rimborsi spesa…). Circa 1,6 milioni di italiani hanno un reddito annuo lordo superiore a 60.000 euro; 22,7 milioni di italiani non superano i 20.000 euro. Su 40,5 milioni di contribuenti, il 4% dichiara più di 2.850 euro netti al mese, mentre il 56% dichiara meno di 1.300 euro netti al mese. Meno di 41.000 contribuenti (0,1% del totale) dichiarano un reddito annuo lordo medio superiore a 300.000 euro (ca 12.000 euro netti al mese).  
  • Il reddito di cittadinanza (RdC) rappresenta un reddito minimo garantito e condizionato a una soglia di reddito. Rispetto al reddito di cittadinanza la situazione europea è più omogenea poiché tutti i paesi prevedono misure di contrasto alla povertà e garanzia di un reddito minimo. Le differenze però sono legate all’importo: l’Italia è l’unico Paese europeo in cui l’importo dell’assegno è pari alla soglia di povertà (780 euro circa) mentre negli altri Pesi la situazione è leggermente differente, ad esempio in Francia l’ammontare è di circa 530 euro, in Germania 400 euro e nel Regno Unito meno di 400 euro. Questa relativa generosità del RdC proposto in Italia, oltre ad avere notevoli conseguenze di costo per le finanze pubbliche, ha dei riflessi anche sull’offerta di lavoro. Difatti, il rischio che una persona rimanga inattiva cresce al crescere del reddito ricevuto in assenza di lavoro. Inoltre, non parametrando l’importo del sussidio rispetto alla zona di residenza, il RdC risulta più generoso per il Sud del Paese dove il costo della vita è, secondo alcune stime, di circa il 16 per cento più basso che nel resto del paese. In termini di costo per le casse dello Stato, questo problema diventa ancor più rilevante se si osserva che la maggioranza dei percettori del RdC risiederebbe nelle regioni meridionali. Ricordiamo che la misura nei primi tre anni è costata circa 20 miliardi di euro, due terzi dei quali destinati al Sud e alle Isole (due percettori su tre risiedono in questi territori). 

Dopo l’annuncio del governo Meloni di modifiche ai meccanismi di distribuzione
del reddito di cittadinanza, si sono susseguite proteste in diverse città italiane.
Sono circa 3,3 milioni i percettori del reddito nel nostro Paese


  • Un altro aspetto da considerare però è anche quello legato agli obblighi dei percettori: oltre a un livello di sussidio relativamente elevato, il rischio di un effetto perverso sull’offerta di lavoro proviene anche dal minore collegamento previsto in Italia tra il beneficio e la partecipazione in programmi di attivazione e/o accettazione dell’offerta di lavoro. Tutti i paesi europei richiedono ai percettori di redditi minimi garantiti di essere disposti a lavorare e nella gran parte questo comporta l’obbligo di adesione e partecipazione a un programma di integrazione sociale e formazione lavorativa, che, se disatteso, comporta la perdita del reddito minimo. In 10 paesi è obbligatorio accettare qualsiasi offerta di lavoro pena la perdita del beneficio, in 11 qualsiasi offerta appropriata, e in Francia si può rifiutare soltanto una offerta. Altri impongono l’obbligo di svolgere lavori socialmente utili nell’attesa di trovare un’occupazione (ad esempio Lussemburgo e Romania). Questo vuol dire che in 22 paesi è concesso di rifiutare al massimo una offerta di lavoro ritenuta appropriata, e almeno altri due richiedono di accettare obbligatoriamente di svolgere lavori di pubblica utilità durante il periodo di inattività. In alcuni paesi si perde diritto al sussidio nel momento in cui il cittadino è scoperto svolgere attività in nero oppure il beneficiario si licenzia senza giustificazione (ad esempio in Ungheria). Inoltre, diversi paesi prevedono che i requisiti per accedere al reddito minimo siano rivisti periodicamente: questo implica che al termine del periodo per cui il sussidio è stato garantito, per rimanerne titolari i beneficiari devono dimostrare agli enti preposti (spesso gli stessi centri per l’impiego) che le condizioni reddituali e di ricchezza necessarie per averne diritto permangono.  
  • Secondo le ultime stime elaborate dall’Istat sono poco più di 1,9 milioni le famiglie in povertà assoluta (con un’incidenza pari al 7,5%), per un totale di circa 5,6 milioni di individui (9,4%), valori stabili rispetto al 2020 quando l’incidenza ha raggiunto i suoi massimi storici ed era pari, rispettivamente, al 7,7% e al 9,4%. La causa di questa sostanziale stabilità è imputabile a diversi fattori; in particolare, a un incremento più contenuto della spesa per consumi delle famiglie meno abbienti (+1,7% per il 20% delle famiglie con la capacità di spesa più bassa, ossia la quasi totalità delle famiglie in povertà assoluta) che non è stato sufficiente a compensare la ripresa dell’inflazione (+1,9% nel 2021), in assenza della quale la quota di famiglie in povertà assoluta sarebbe scesa al 7,0% e quella degli individui all’8,8%. L’incidenza delle famiglie in povertà assoluta si conferma più alta nel Mezzogiorno (10,0%, da 9,4% del precedente rapporto) mentre scende in misura significativa al Nord (6,7% da 7,6%), in particolare nel Nord-ovest (6,7% da 7,9%). Tra le famiglie povere, il 42,2% risiede nel Mezzogiorno (nel precedente rapporto era il 38,6%), e il 42,6% al Nord (prima il 47,0%). Si ristabilisce dunque la proporzione registrata nel 2019, quando le famiglie povere del nostro Paese erano distribuite quasi in egual misura fra Nord e Mezzogiorno. 

 


Parole chiave per leggere il fenomeno


Salario Minino e contrattazione collettiva 

Nell’Unione Europea, in 21 dei 27 Stati membri è stato già introdotto il salario minimo, ma l’Italia non ha ancora un provvedimento simile. Tra i Paesi dell’UE che non hanno il salario minimo figurano anche Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia: in queste nazioni i salari sono disciplinati dai contratti collettivi nazionali.

Il salario minimo è la retribuzione di base per i lavoratori delle differenti categorie, stabilita per legge, in un determinato arco di tempo e che non può essere in alcun modo ridotta da accordi collettivi o da contratti privati: si tratta in sostanza di una “soglia limite” di salario sotto la quale il datore di lavoro non può scendere.  

Si parla da diversi anni in Italia della scelta di affidare il compito di determinare il livello minimo di salario alla legge e non solo alla contrattazione collettiva, così come avviene oggi. Vi sono numerose proposte di disciplina del salario minimo ma per ora, nessuna è stata approvata ne ha trovato l’accordo tra le parti sociali.

Le legislazioni sul salario minimo, nei diversi Paesi Europei e non, hanno calcolato il salario minimo alla luce di una serie di parametri quali la produttività, il PIL, l’Indice dei prezzi al consumo e l’andamento generale dell’economia; è chiaro che periodicamente viene calcolata una rivalutazione in modo tale da mantenere il potere di acquisto dei salari stabile nel tempo.  

Secondo le più recenti statistiche Eurostat, sono previste retribuzioni minime nazionali in 21 dei 27 Stati membri dell’UE con notevoli differenze per quanto riguarda l’importo mensile: si va dai 312 euro in Bulgaria ai 2.142 euro in Lussemburgo, dai 584 dell’Estonia fino ad arrivare ai 1.706 dell’Irlanda.

In Italia esistono pensioni minime, mentre un livello di salari minimi non è previsto da leggi nazionali, ma dalla contrattazione fra le parti sociali. Stando alla stima del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) attualmente sono in vigore circa 888 contratti collettivi nazionali. Inoltre, non è obbligatoria la stipula di contratti collettivi e di fatti esistono imprese o tipologie di contratti di lavoro individuali in cui non è applicabile nessun contratto collettivo.  

Working poors 

Il tema del salario minimo è tornato nel dibattito pubblico in connessione con il fenomeno dei working poors: lavoratori il cui reddito è inferiore alla soglia di povertà relativa (il fenomeno è spesso correlato ad occupazioni a tempo parziale).

Secondo l’ultimo report di “In-work poverty in the EU” in Italia l’11,7% dei lavoratori dipendenti riceve un salario inferiore ai minimi contrattuali. Per tali motivi, diverse forze politiche, ancora prima della proposta europea in merito, hanno proposto l’introduzione del salario minimo nazionale. In assenza di una legge sul salario minimo nazionale tutto si basa sulla contrattazione collettiva tra datori di lavoro e sindacati.  

Di fatto, anche se la concertazione fissa le regole del salario minimo, manca un riconoscimento di questa prassi mediante una legge ordinaria. Inoltre, in Italia un contratto collettivo di lavoro da applicare nei contratti di lavoro individuali ha dei limiti, ovvero:  

  • non è obbligatorio: l’imprenditore può non applicare nessun CCNL, ovvero stabilire un contratto aziendale creato ad hoc;  
  • gli ambiti di applicazione dei contratti collettivi talora si sovrappongono e il datore può scegliere lo strumento contrattuale ritenuto più conveniente;  
  • non è necessario il consenso del sindacato e perciò può essere fatta una scelta unilaterale dell’impresa;  
  • due unità produttive della stessa impresa possono avere contratti collettivi diversi. 

In questo modo, una parte di lavoratori dipendenti rischia di non essere tutelata da un contratto collettivo e dunque, finisce per restare priva di un salario minimo. La proposta europea di direttiva prevede che i paesi con un salario minimo debbano mettere in piedi un sistema per la governance e l’aggiornamento del salario minimo. Si tratta di impostare criteri chiari (incluso il potere d’acquisto tenendo conto del costo della vita, il livello, la distribuzione e la crescita dei salari e la produttività nazionale). 

Forbice sociale  

Il disequilibrio dei redditi è un tema fortemente correlato alle disuguaglianze. Le condizioni economiche di partenza degli individui, in termini di reddito e patrimonio, creano delle barriere quasi insormontabili. Spesso predeterminano titolo di studio, stato di salute e stato di ricchezza nel corso di tutta la vita. 

Secondo Oxfam, nel 2019, il 20% più ricco in Italia detiene quasi il 70% della ricchezza totale in Italia, mentre il 20% più povero circa l’1,3% (nel nostro Paese il 20% della popolazione con i redditi più alti può contare su entrate più di sei volte superiori a quelle di coloro che sono nel 20% più in difficoltà).  

Il patrimonio dei primi tre miliardari italiani sarebbe superiore alla ricchezza netta detenuta dal 10% più povero della popolazione italiana, circa 6 milioni di persone (37,8 miliardi di euro). L’Italia è il peggiore tra gli Stati europei più popolosi per differenza di reddito tra i ricchi e i poveri con una forbice che in dieci anni si è allargata: la differenza era di 5,21 volte nel 2008, è diventata di 6,09 volte nel 2018.   

I dati sul gap tra le diverse fasce di reddito sono stati aggiornati dall’Eurostat e la lettura delle statistiche evidenzia anche una differenza tra il Nord e il Sud: il minor divario tra ricchi e poveri si registra in Regioni come Friuli Venezia Giulia (4,1) e Provincia di Bolzano (4), mentre la forbice è a livelli record in Campania e Sicilia, dove il 20% benestante ha un reddito 7,4 volte superiore al quintile più disagiato della posizione.

Nel 2020, a causa della pandemia, vecchie vulnerabilità si sono acuite e sommate a nuove fragilità, con conseguenze allarmanti per il benessere dei cittadini, l’inclusione e la coesione sociale.  

Dal dibattito successivo alle relazioni iniziali alcuni spunti sono emersi preponderanti:  

  • imporre un minimo salariale orario per tutta Italia 
  • rafforzare l’efficacia delle organizzazioni sindacali 
  • assegnare missioni strategiche qualitative di lungo termine alle imprese pubbliche 
  • prevedere l’acquisto delle imprese in crisi da parte dei loro stessi lavoratori  
  • dar vita ad un’eredità universale da versare ad ogni maggiorenne 
  • rafforzare la portata redistributiva del sistema nazionale di imposte e trasferimenti 
  • investire in un’istruzione pubblica di qualità e nel contrasto alla povertà educativa  

Alcune pratiche virtuose


  • Il fondo sociale europeo Plus 

I dati Eurostat mostrano quanto la disoccupazione sia aumentata nel periodo post-pandemico: dal terzo quadrimestre del 2019 a quello del 2020, il numero di lavoratori occupati è calato di quasi 3,5 milioni nei paesi dell’Unione europea, pari al -1,8%. La necessità di rinvenire strumenti e aiuti finanziari per limitare quanto possibile l’aumento di persone a rischio di povertà ha comportato innanzitutto una revisione di quella che era la proposta di bilancio per il 2021-2027, presentata dalla commissione europea nel 2018.  

È stato istituito nel 2018 il Fse+, un ulteriore fondo di aiuti per gli stati europei. Solo nel periodo 2007-2013 il fondo sociale europeo (Fse) ha aiutato quasi 10 milioni di persone nell’Unione a trovare un posto di lavoro.

Il Fse+ ha dunque l’obiettivo di incentivare ulteriormente i paesi nel proseguire con gli sforzi fatti nella lotta contro la povertà. Ciascuno Stato membro concorda, insieme alla Commissione europea, uno o più programmi operativi per i finanziamenti dell’Fse durante il periodo di programmazione settennale. I programmi operativi definiscono le priorità di intervento delle attività del FSE e i relativi obiettivi.  

L’UE distribuisce i finanziamenti del Fse agli Stati membri e alle regioni al fine di sostenerne i programmi operativi che, a loro volta, finanziano progetti nel campo dell’occupazione gestiti da un ventaglio di organizzazioni pubbliche e private, denominate beneficiari.  

La commissione europea ha previsto che il fondo sia rinnovato con una dotazione di bilancio di 101 miliardi di euro, accorpandolo al già esistente Fse e ad altri aiuti europei, tra cui il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (Feg). Quest’ultimo in particolare si distingue dal Fse, che agisce in una prospettiva più strategica e a lungo termine, mentre il Feg offre ai lavoratori un sostegno individuale e limitato nel tempo.

Inoltre, il Fse è uno strumento trasversale alla lotta della povertà, in quanto è volto a offrire un sostegno a coloro che hanno perso il lavoro a seguito di importanti mutamenti strutturali del commercio mondiale dovuti alla globalizzazione, come a seguito della crisi economica del 2008 o dell’attuale crisi sanitaria. 

  • Proposta di legge sulla rappresentanza contro la contrattazione pirata 

In Italia si stima siano oltre 400 i contratti pirati, ovvero contratti che riproducono la struttura di quelli firmati da Cgil, Cisl e Uil, ma con un salario più basso.

Si tratta di accordi firmati da aziende e sigle sindacali spesso costituite ad hoc, che fanno dumping e concorrenza sleale al ribasso, in particolare sulla parte normativa e sul salario accessorio.  

Da una parte riducono le agibilità sindacali, dall’altra pagano di meno i lavoratori: visto che l’Inps applica le stesse aliquote previste per i contratti nazionali sulla parte fissa, l’esercizio della pirateria avviene sulla quota accessoria della retribuzione. Poi, sempre nell’ambito di questi contratti, c’è il tema della costituzione dei fondi bilaterali, che certamente non migliora il sistema della bilateralità.

Sia chiaro, però, che non tutti i contratti collettivi con contenuto peggiorativo possono considerarsi pirata. È normale che per salvaguardare i livelli occupazionali, o in particolari congiunture economiche, i sindacati possono essere costretti a stipulare contratti collettivi a ribasso; ma in tali evenienze i contratti sono, comunque, stipulati per perseguire la tutela dell’interesse collettivo; l’organizzazione sindacale, cioè, contratta condizioni peggiorative per salvaguardare altri interessi dei lavoratori, primo fra tutti la conservazione dei posti di lavoro.

I contratti pirata, invece, hanno come unico obiettivo la riduzione delle tutele dei prestatori di lavoro per far conseguire dei vantaggi al datore di lavoro; non hanno natura di contratti collettivi perché sono stipulati da un soggetto che non persegue la tutela degli interessi dei lavoratori che rappresenta e che di conseguenza è privo della natura sindacale. Quindi, fuori dal paradigma dell’art. 39, comma 1, Cost. 

La disintermediazione degli ultimi quindici anni ha indebolito i corpi intermedi e favorito una proliferazione di associazioni, che a loro volta si sono frantumate in tante sigle. Un fenomeno trasversale che investe tutti i settori: attualmente ogni impresa può applicare il contratto che ritiene più vantaggioso, per questo la definizione di una legge sulla rappresentanza è sempre più urgente e non rimandabile.

Il 10 gennaio del 2014 fu firmato il Testo unico sulla rappresentanza, che comprende quasi 200 sigle sindacali ma che, naturalmente, riguarda solo le organizzazioni che hanno aderito.  

Ora le associazioni sindacali richiedono una legge che prenda a riferimento i contenuti di quelle intese, per costruire delle regole e stabilire chi può firmare un contratto che si applica a tutti in quanto i lavoratori devono avere la certezza di essere rappresentati correttamente. E non si tratta di certificare l’esistenza dei sindacati, al contrario: chi si assume l’onere di firmare un contratto deve essere qualificato e avere i numeri per farlo. 

Fotografia: Towfiqu barbhuiya

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