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Germania, la battaglia delle parole dell’estrema destra


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Pubblichiamo qui di seguito un’inchiesta di Lorenzo Monfregola, con la curatela di Lorenzo Bagnoli. La conquista dello spazio politico di neonazi e populisti è passata dalla creazione di un nuovo linguaggio. Che ha innescato un vero e proprio conflitto all’interno della società tedesca.

Mein fruher

La scritta nera su sfondo rosso ha caratteri simil-gotici e sembra recitare “Mein Führer”,mio Führer”. In realtà, guardando meglio, il testo dice “Mein Früher”, cioè “il mio passato”. L’immagine è una di quelle utilizzate in Germania da Exit, organizzazione che si occupa di aiutare chi vuole uscire da gruppi neonazisti e di estrema destra. Donne e uomini che vengono assistiti in un percorso incredibilmente complicato, sia psicologicamente sia sul piano della sicurezza personale.

Entro in una delle sedi di Exit in un quartiere orientale Berlino: l’ufficio non è riconoscibile dall’esterno, per evitare atti vandalici. Incontro Fabian Wichmann, che per Exit si occupa sia di gestione dei casi sia di relazioni pubbliche. Wichmann spiega:

«Per noi le parole sono molto importanti. La narrazione è importante per aiutare qualcuno a sciogliere i propri dubbi, visto che tutte le persone con cui abbiamo a che fare ci contattano volontariamente, ma spesso non sanno ancora bene come muoversi o dove li stia davvero conducendo il loro percorso. Più semplicemente, una narrazione individuale è inoltre utile per mettersi in sicurezza quando si abbandona la scena: cosa si racconta, a chi? Cosa si dice, cosa non si dice?».

Dal 2000 a oggi, Exit Germania ha fatto uscire dalla galassia neonazi e di estrema destra più di 800 persone, di cui circa due terzi uomini e un terzo donne. Secondo i dati del BfV – l’Ufficio per la protezione della costituzione, cioè l’intelligence interna tedesca – al momento ci sono più di 33 mila estremisti di destra in Germania, di cui oltre 13 mila considerati pronti alla violenza. A questo mondo si aggiunge un’ampia area grigia dalla dimensione spesso sottovalutata.

Il radicamento dell’estremismo di destra in Germania, così come il suo contrasto, non passa ovviamente solo dalle parole. «Le parole funzionano nella regola solo perché le persone sono pronte dal punto di vista emotivo a entrare in contatto con esse», spiega Wichmann. «Quando un ragazzo inizia a scegliere codici e immagini legati al presunto eroismo del nazionalsocialismo o dalle Waffen-SS, significa che questi elementi possono già attecchire, che c’è un riferimento individuale, la capacità di identificarsi. E lì, tra altri fattori, conta il tessuto sociale nel quale si è inseriti in famiglia o durante l’infanzia, per esempio un nonno che glorificava il nazismo, oppure un ambiente dove il nazismo non solo non è stato raccontato come un tabù, ma addirittura come qualcosa di positivo».

Il linguaggio della destra estrema, quindi, ha bisogno sempre e comunque di un terreno fertile, di una geometria di significati strutturata, di una sua tollerabilità sociale, anche se sommersa. Questo meccanismo vale anche se si vuole rilevare come il linguaggio un tempo usato solo dalla destra estrema si sia ormai incuneato in una parte della società tedesca non formalmente estremista.

Tra estremismo e populismo

Parlare della lingua dell’estremismo di destra in Germania significa muoversi tra due poli: quello più riconoscibile e immediatamente violento del neonazismo e quello più ambiguo e sfaccettato del populismo di destra. Il più recente diffondersi di una parte della terminologia di estrema destra nella società tedesca è esploso con la cosiddetta crisi dei migranti del 2015, quando oltre un milione di richiedenti asilo hanno raggiunto la Germania.

Da quel momento è iniziato un percorso che nel 2017 ha portato AfD (Alternative für Deutschland) a essere la prima formazione a destra dei cristiano-democratici a entrare nel parlamento tedesco, andando così a rompere un tabù che resisteva fin dal dopoguerra. Realtà ponte tra l’estremismo di destra tradizionale e alcune declinazioni della forma-partito di AfD sono stati, tra gli altri, movimenti come Pegida, letteralmente i “Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’occidente”. Nel corso degli anni, da AfD (o da ambienti a essa vicini) sono state formulate o riformulate espressioni legate alla tradizione dell’estremismo di destra.

Si pensi al termine “Lügenpresse” per identificare i “media bugiardi”, espressione che esiste da 180 anni ma fu poi usata da Hitler e Goebbels contro la stampa “rossa” ed “ebraica”. Altro esempio è il tentativo di riabilitazione dell’aggettivo “völkisch“, che significa letteralmente “del popolo”, ma che è profondamente legato al principio etnonazionalista e razziale di “sangue e terra”. Altrettanto emblematico è stato l’emergere del concetto di “Überfremdung“, che descrive una crescente presenza di stranieri in una società e che si lega alla cosiddetta idea di “Umvolkung” – oggi interpretata come la sostituzione di un popolo, vale a dire con il noto paradigma suprematista della lotta contro la “grande sostituzione” razziale. Entrambi questi ultimi due termini richiamano implicitamente anche il concetto di “Volktsod”, elemento specifico del neonazismo, che esprime la visione apocalittica della “morte del popolo” tedesco contro cui è necessario combattere con ogni mezzo.

Una parte della destra populista tedesca ha trovato terreno fertile per queste parole (o per altri surrogati), sfruttando le contraddizioni dell’immigrazione e del multiculturalismo in Germania e innescando anche un processo di etnicizzazione delle rivendicazioni di quei cittadini tedeschi che per molteplici motivi sono ostili all’organizzazione economica, sociale e culturale del loro paese. Questo è soprattutto vero per il successo di AfD nei Land dell’ex Germania dell’Est, dove permane oggi lo zoccolo duro della destra identitaria tedesca, costituito principalmente da un mix di élite mancate tedesco-orientali e cittadini in qualche modo sconfitti dalla Riunificazione. Emblematico di questa particolare realtà è l’uso nelle manifestazioni della destra populista dell’espressione “Wir sind das Volk”, “Noi siamo il popolo”, che richiama uno slogan usato dalla rivoluzione pacifica durante gli ultimi anni della DDR, ma che paradossalmente è oggi anche la rivendicazione di un’identità tedesca-orientale tendenzialmente euro-asiatica e sempre più convintamente anti-liberale.

Questo scenario ha molti paralleli in altri paesi d’Europa, ma nella realtà tedesca è esistita fino a oggi una differenza sostanziale: pur entrando in parlamento, la destra identitaria più o meno radicale non ha mai potuto legittimarsi tramite alcun tipo di collaborazione con altri partiti tedeschi. Da anni, nei confronti di AfD regge una cosiddetta “Brandmauer”, un “muro anti-fuoco” che nega ogni collaborazione verso destra. La feroce eccezionalità della storia tedesca ha reso questo muro molto più solido rispetto a quanto avvenuto altrove in Europa, anche in base al concetto tedesco della “wehrhafte Demokratie” – cioè la “democrazia fortificata” o “combattiva” – un paradigma costituzionale secondo cui la difesa dell’ordine democratico va sempre perseguita attivamente, anche limitando la capacità di azione delle forze ritenute anti-democratiche.

Non è quindi un caso se negli anni l’intelligence interna tedesca ha posto «sotto osservazione per presunto estremismo» prima alcune correnti e gruppi locali di AfD e, nel 2021, l’intero partito nazionale (anche se con formule non ancora definitive).

Rebranding

Per aggirare la “Brandmauer” politica e culturale, negli ultimi anni una parte della destra radicale tedesca ha anche cercato nuove formulazioni, inseguendo un linguaggio che fosse invece il più possibile decontaminato da vecchi codici, significati, responsabilità. Questo vale soprattutto per alcune correnti della nuova destra tedesca, la Neue Rechte, in cui l’elaborazione intellettuale è diventata molto più raffinata, in parte sul modello della Nouvelle Droite francese, movimento nato negli anni Settanta con il filosofo Alain De Benoist.

Contatto il professor Simon Meier-Vieracker, professore di Linguistica applicata all’Università di Dresda, che si occupa, tra le altre cose, delle evoluzioni del linguaggio della destra estrema:

«Caratteristica del nuovo linguaggio dell'estrema destra è l'ampia rinuncia o addirittura la presa di distanza retorica da svalutazioni esplicite di gruppi stranieri, come nel razzismo puro e semplice - spiega Meier-Vieracker -. Naturalmente gli stereotipi razzisti sono ancora utilizzati, ma gli insulti razzisti, ad esempio, tendono a essere evitati. Tipica è anche l'appropriazione di parole d'ordine solitamente associate a posizioni liberali. Un esempio è l'appropriazione del cosiddetto etno-pluralismo, secondo il quale ogni cultura ha lo stesso valore e la diversità delle culture deve essere preservata». «Allo stesso tempo, però - sottolinea Meier-Vieracker - si comunica che ogni cultura abbia il suo luogo ancestrale e che ci debba essere la minor mescolanza possibile. Si tratta così essenzialmente di una posizione razzista, ma che contemporaneamente prende esplicitamente le distanze dal razzismo».

Questi esempi possono essere letti come costituenti di un processo in corso in questi anni, cioè l’uso e l’appropriazione tattica da parte delle destre radicali occidentali delle declinazioni e delle suggestioni delle cosiddette identity politics, espressione che definisce le proposte politiche basate sull’identità, di genere, etnica, religiosa.

Linguaggio e violenza

Se porzioni della Neue Rechte stanno cercando un nuovo volto lasciandosi alle spalle pezzi di “album di famiglia”, ci sono altri contesti in cui le commistioni tra populismo nazionalista ed estremismo sono invece drammaticamente evidenti. Nel giugno 2019 è stato assassinato in Assia, regione della Germania centrale, Walter Lübcke, politico tedesco della Cdu e aperto sostenitore della “Willkommenspolitik”, la politica di accoglienza dei migranti in Germania. A causa di uno spezzone di un suo intervento pubblico diventato virale su internet nel 2015, Lübcke era da anni vittima di campagne d’odio online provenienti sia da ambienti neonazisti sia da sostenitori riconducibili al populismo identitario. A uccidere Lübcke con un colpo di pistola è stato un neonazista tedesco, Stephan Ernst, ma il percorso di escalation che ha portato all’assassinio del politico cristiano-democratico ha attinto da una retorica che per anni si è mossa ben oltre i confini dell’estremismo di destra più tradizionale.

Valutazioni simili possono essere fatte per altri due attacchi terroristici di estrema destra avvenuti negli ultimi anni in Germania. L’assalto alla sinagoga di Halle dell’ottobre 2019, che ha causato due vittime, è stato presentato dall’attentatore con messaggi antisemiti non immediatamente legati a formule neonaziste, quanto piuttosto espressione di un neo-antisemitismo che da tempo si sta ri-diffondendo nella società tedesca. Proprio nel maggio 2022 l’Ufficio per la protezione della costituzione ha pubblicato un report in cui denuncia come in Germania l’antisemitismo sia ormai di nuovo «arrivato al centro della società». L’attacco razzista di Hanau del febbraio 2020, che ha causato nove vittime, è stato invece commesso da un uomo che si era radicalizzato online su temi ultra-complottisti, anche in questo caso tramite un linguaggio di estrema destra che si mostra riformulato, attualizzato e riadattato per una propagazione non limitata ai gruppi dell’estremismo organizzato.

Disinnescare

Una delle parole largamente usate negli ambienti della destra estrema e dagli hater online contro politici come Lübcke è stata (ed è) quella di “Volksverräter”, cioè “traditore del popolo”. Si tratta di un altro esempio dell’attualizzazione e della diffusione su più ampia scala di un paradigma cruciale della tradizione del neonazismo tedesco e decisivo all’interno dei gruppi più radicali. Come ricorda Fabian Wichmann di Exit, «l’uscita dal gruppo di un suo membro significa sempre ‘tradimento’ per la scena neonazista. Il ‘tradimento’ è un concetto che nell’ambiente racchiude quanto di peggiore si possa immaginare. Inizialmente anche chi si rivolge a noi non ammette a se stesso di voler ‘uscire’, proprio perché non vuole sentirsi automaticamente un ‘traditore’. All’inizio chi si rivolge a noi parla spesso solo di voler cambiare, dell’emergere di rimorsi, del fatto che non si capisce più la propria realtà e l’ideologia che le dà forma».

In questo contesto, il lavoro di Exit non si basa su un giudizio pressante su chi si sta distanziando dall’estremismo di destra, ma sull’apertura progressiva e calcolata di nuove prospettive, tramite un dialogo continuato. Un approccio che più che censurare i linguaggi dell’estremismo cerca di disinnescarlo, che più che vietare le parole le vuole smascherare nella loro inefficacia e nel loro inganno ideologico. Un metodo di disinnesco che va in profondità e cerca di giungere alla radice di quella geometria di senso che è innanzitutto indispensabile all’attecchimento dell’estremismo. Una metodologia che rifiuta quindi la paura di decostruire l’anima concreta dell’estremismo di destra e delle sue motivazioni più oscure. Non è un caso se una parte dei lavoratori di Exit in Germania siano essi stessi ex neonazisti fuoriusciti completamente dalla scena.

«Nel dialogo che facciamo con le persone, cerchiamo innanzitutto di offrire prospettive alternative - sottolinea Wichmann - si tira fuori la persona da un modello di pensiero in cui tutti pensano in gruppo e si dice ‘prova a guardare la questione da quest’altro punto di vista, oppure da quest’altro ancora’. Quello che facciamo è ampliare uno spettro, rendere possibile un’apertura”.

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