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Fare i conti con la propria storia senza cedere alla disillusione


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Scavare nel mondo della “terza strada”, quella del ritiro, segnata dalla delusione e dalla disillusione della politica, è interessante. I delusi e i disillusi, infatti, a differenza di chi si batte dall’interno o di chi passa dalla parte opposta, spesso fondano la loro scelta sul silenzio più che sulla presa della parola.

Il silenzio, come si sa, è una condizione che è capitata molte volte nella Storia, ma di cui abbiamo solo tracce incompiute. Per questo rimane un terreno scarsamente indagato, di cui è difficile individuare segni e testimonianze. In quel silenzio non sta solo lo sconcerto, ma sta anche il lento venir meno della fiducia verso la politica (ricordiamo che l’inizio della presenza pubblica nella sfera della politica nasce proprio dal riconoscersi un diritto di parola e dal prenderla).

Quel silenzio, dunque, segna un sentire molto diffuso oggi e la parabola di una generazione che da quel silenzio vorrebbe uscire e che si interroga su come reinventare una nuova politica.

Tuttavia, prima di passare subito al progetto, alla pars costruens, forse non è improprio soffermarsi a riflettere e ad elaborare quella destruens in gran parte definita dalla necessità di elaborare un lutto, che per gran parte dei “gruppi dirigenti di quella politica” non è neanche mai davvero cominciato.

Il tema è l’ultimo atto del Pci nella storia italiana. Nel 1989, quello che contemporaneamente appariva come l’avvio di un nuovo ciclo, non poteva essere separato dalla necessità di prendere le misure con ciò che a lungo aveva segnato le passioni e le convinzioni di almeno due generazioni. Tuttavia, nei fatti, quel resoconto, non è avvenuto. Allora si trattava di prendere congedo da una storia, di staccarsi da un “pantheon”, da una galleria di immagini, di simboli e di progetti, scavando al fondo, alle motivazioni primarie che li aveva generati. Prima ancora che da responsabilità materiali, concrete, si trattava di compiere un vero rito di passaggio in cui una classe dirigente riprendeva le misure, si confrontava col vuoto che quell’uscita determinava, ma allo stesso tempo si impegnava a compiere un’analisi concreta delle sfide che quella uscita segnava.



Il 1989 doveva essere questo. Ovvero porsi al bivio e scegliere: da una parte caricarsi di tutto il peso del passato, non solo quello segnato dalle cose fatte e sbagliate, ma anche di quelle taciute che ritornavano a presentarsi tra le eredità scomode in quel tempo. Dall’altra preoccuparsi di “farla franca” o misurare e tirare al ribasso sul prezzo da pagare per le proprie contraddizioni.

Imboccare la seconda strada voleva dire condannarsi all’irrilevanza della propria storia. Viceversa, imboccare la prima strada – ovvero prendere congedo dalla precedente illusione senza cedere alla delusione – voleva dire provare a ripercorre un processo di formazione che abbandonasse l’idealizzazione e che prendesse la fisionomia della disillusione. Ovvero intraprendere un percorso che caratterizza tutti i processi di crescita e di trasformazione verso la condizione adulta (Gioco e realtà di Donald Winnicott, 1971). Se, invece, quel processo non avviene, se non si definisce un graduale passaggio al senso di realtà, se nell’adulto o nella comunità l’oggetto dell’idealizzazione non conosce una matura disillusione, ciò che si produce è la triste, rassegnata delusione.

Perchè la delusione, invece che alla consapevolezza, porta al cinismo.

Insomma, invece di essere disillusa la nostra è diventata una generazione di delusi. E infatti quel processo non parla a noi? Di noi? Ora?

Il cinismo, lo scetticismo, nelle sue diverse varianti: dal ribellismo alla violenza, dalla passività al relativismo, in proporzione alla potenza dell’illusione. O semplicemente la rassegnazione del «nulla potrà mai cambiare»: la più triste delle passioni tristi.

L’effetto di quel processo non avvenuto (più che di un atto mancato) si riflette nel modo in cui la politica si consegna alla generazione successiva. Ma anche nel modo in cui una generazione, nel dopoguerra ha impiegato tempo a prendere le misure della politica proprio in relazione alle modalità con cui quella politica si era consegnata a lei.

Se dovessimo scandagliare gli esempi storici di questo “avvenire di un’illusione”, dovremmo dire che sono davvero tanti in tutto il Novecento e che non si annidano solo nell’utopia comunista che si ritorce nel suo contrario o, in generale, nei totalitarismi.

Certo il laboratorio che maggiormente ha fornito i modelli più malsani della dialettica disillusione-delusione lo troviamo negli anni Trenta del secolo scorso. È allora che nascono e si combattono “le ideologie”, nei loro veri archetipi che vivranno solo come pallide imitazioni nelle diverse guerre fredde, già secolarizzate, del secondo dopo-guerra. Ed è nel periodo entre deux guerres, che esse principalmente si sfidano, in buona sostanza, su un punto topico.



Senza scomodare la questione del potere e dei fini e della politica, da Machiavelli a Hobbes, da Hegel a Kant, vediamo nel Novecento dei piccoli, eroici esempi di irriducibilità del bene e della persona in testimonianze individuali, come quelle di Simone Weil per la sua mistica in azione, come in Etty Hillesum nella sua carnale resistenza spirituale o in esponenti “politici” per i quali il valore della politica non è meno potente se il suo esito porta alla sconfitta. Se è irriducibile al bene. E non per un senso eroico della testimonianza e del martirio, ma proprio per il suo “successo” politico che sta nel suo insuccesso.

Un gigante di questa “politica” è l’incompreso Luigi Sturzo degli anni Trenta.

È il Natale del 1937, un anno cruciale, Sturzo si impegna con tutte le forze per una soluzione di pace nella guerra civile spagnola. Scenario estremo della furia ideologica allo stato primitivo e sorgivo, a cui, secondo la nota espressione di Arturo Carlo Jemolo, fu «facile darle aspetto di crociata, per la fede dei padri, per la libertà della Chiesa, contro gli emissari di Mosca. Qui nessuna riserva tra il clero, qui tutte le benedizioni ai legionari» e dove, come scriveva Georges Bernanos, «tutti gli errori di cui l’Europa sta mortalmente soffrendo, e che essa si sforza di rigurgitare tra spaventose convulsioni, vengono a raccogliersi e imputridire qui. La tragedia spagnola è un carnaio».

Sturzo è ben consapevole di come il suo approccio cristiano, liberale e democratico sia lontano anni luce da quel contesto, non potrà lontanamente essere capito né avere ascolto da nessuna delle due parti e non di meno dalla chiesa. E neppure da quel Pio XI che solo nel marzo di quel fatidico 1937, tardivamente e male, forse avrebbe potuto capirlo. Eppure, Sturzo, che aveva ben ragione per essere deluso prima ancora che dal fascismo dalla sua stessa chiesa a cui l’aveva dato in pasto, non si rassegna.

Cerca di far vedere e far capire a quella chiesa tutta la potenza politica che essa potrebbe avere se decidesse di impegnarsi per una soluzione negoziata, così come, mentre lo fa sente il valore politico del suo stesso impegno, “perdente e impotente”. Non si appella al valore intrinseco, pur nobile, della richiesta di pace, e ben vedendo quanto la furia indescrivibile delle ragioni di quel reciproco annientamento non ammetta logiche “democratiche” di mediazione, pensa che sia quella la politica giusta, addirittura realista. Rispondendo a Jaume Ruiz Manet che condivide la sua fede ma non la sua posizione politica scrive:

Da maggio in poi lavoro d’accordo con i Comitati per la pace civile e religiosa in Spagna, pace di riconciliazione; e non pace imposta da una vittoria. Se non si riesce a nulla non importa: Dio vede il cuor, Dio non ci domanda il successo, ma solo il lavoro con retta intenzione, nell’osservanza completa della sua legge e nella conformità assoluta della sua volontà.

Lei sa che questa è stata ed è (per grazia di Dio) tutta la mia attività. Non i fatti mi potranno convincere che il male fatto non sia male, che la ribellione non era lecita, che la guerra civile non è morale. Uno stato cristiano come effetto della guerra civile costruito da coloro che ne hanno le mani insanguinate prima, non è concepibile. Napoleone affermava (contro Pio VII) ch’era Dio che provava ch’egli era nel giusto per i suoi successi; lo stesso ripete Hitler ch’è Dio con lui. Essi non comprendono che Dio permette il male per trovare il bene; ma noi non possiamo chiamare il bene quel che è male e resta male, anche se permesso da Dio.

(in Alfonso Botti, Luigi Sturzo e la guerra civile spagnola, Morcelliana 2019, p. 170)

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