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L’ecologia è un sapere sovversivo?


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Una piccola genealogia

L’ecologia è un sapere sovversivo o una particella dell’ordine del discorso dominante? Per rispondere a questa domanda propongo la costruzione, lo schizzo di una piccola genealogia, che in quanto tassello di una storia del presente, non scaturisce che da un dubbio, l’atroce dubbio che, qualcosa che oggi vediamo coi nostri occhi e sentiamo accadere, venga da un luogo del passato che ha funzionato come deposito di senso, un senso che si riproduce nel quotidiano in cui ci è toccato di vivere, ma di cui abbiamo bisogno di cercare le ramificazioni.

La scienza sovversiva

Proviamo a stabilire una cronologia minima: nel 1969 Paul Shepard e Daniel McKinley curano una collezione di saggi riuniti sotto il titolo: The Subversive Science: Essays Toward an Ecology of Man. La domanda con cui principia il lavoro suona così: “L’ecologia è una fase della scienza dall’interesse e l’utilità limitate? Oppure, se presa sul serio come strumento per un benessere dell’umanità di lungo corso, metterebbe in pericolo gli assunti e le pratiche accettate dalle società moderne, indipendentemente dai loro impegni dottrinali?[1]

La domanda così posta testimonia al contempo ciò che contraddice il suo stesso autoproclamato sovversivismo. Intendiamoci: mentre gli autori sostengono che, a partire dal titolo, l’ecologia umana – qui “Ecology of Man” – vada pensata come una “scienza sovversiva”, al momento di esplicitare il senso della questione sembrano escludere il conflitto che di primo acchito pare implicito, necessario in una simile proposta. È cioè la seconda parte della questione a non convincere, se anche si inforcassero le lenti degli autori. Esclusa l’ipotesi che l’ecologia sia semplicemente una scienza dall’interesse e dalla utilità limitata non ci rimane che capire cosa significhi prenderla sul serio. E qui si legge che l’ecologia potrebbe mettere in pericolo, cioè in crisi le comuni prassi sociali. Fin qui tutto chiaro. Ma perché aggiungono che dovrebbe o potrebbe farlo indipendentemente dalle dottrine, o diremmo, dalle ideologie di riferimento?

Questo è il problema più insidioso di una ecologia vista come politica, e cioè il suo potenziale impolitico, aconflittuale, pacificante. Non è poi quello che ci si attende, quando la si descrive come “sovversiva”. Ecco che si fa chiara l’altra immagine, anch’essa diffusa, se non più diffusa, dell’ecologia, che non sempre viene guardata come scienza sovversiva ma al contrario come “imbroglio” della pacificazione.

[1] Paul Shepard e Daniel McKinley, The Subversive Science: Essays Toward an Ecology of Man, 1969, p. V, attribuendo il questito in realtà a un altro autore, Paul B. Sears.

L’imbroglio ecologico

Veniamo allora a un altro tassello possibile di questa piccola genealogia: Dario Paccino pubblica L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura nel 1972 (oggi meritoriamente riedito da Ombre Corte, 2021) e denuncia precisamente questo: perché ricorrere alla natura implicherebbe sistematicamente proporre/imporre una nuova morale ecologica, una nuova ragione del mondo secondo cui non ci rimangono che progetti di salvezza universalmente e globalmente validi?

È simile la preoccupazione che ha avuto Joan Martinez Alier quando ha scritto il suo The Environmentalism of the Poor(uscito in Italia come Ecologia dei poveri) col quale ha scompaginato le categorie classiche del discorso ecologico contemporaneo, e la sua indifferenza nei confronti del Sud del mondo, chiamato a una responsabilità anche per danni che non ha prodotto. Ecco l’ingiustizia finalmente esibita: ogni volta che si viene chiamati a rispondere di qualcosa per cui non si è responsabili lì c’è ingiustizia. Non si può costruire la pace sulla base di una ingiustizia. I danni meritano di essere prima riparati. La responsabilità merita di essere costruita in modo equo. Solo così si ottiene giustizia. E ciò vale anche per questa forma di giustizia che prende il nome di giustizia ambientale. Nella lotta per preservare i mezzi di sussistenza contro l’estrattivismo portato avanti dalle compagnie minerarie, la costruzione di dighe, lo sfruttamento di gas e l’accaparramento delle terre, le comunità contadine e indigene sono state, fin dagli anni ’80 e ’90, la spina dorsale del movimento globale per la giustizia ambientale. È su questo che Martinez Alier ci ha aperto gli occhi.

Paccino già aveva capito che l’ecologia rischiava di essere sempre esclusivamente una scienza borghese. Epperò ammantata di sovversivismo, “vestito dell’ideologia ecologica […] così sapiente e per bene, da fare dell’ecologia, oltre che la nuova levatrice della storia, anche la scienza pedagogica per antonomasia, da insegnare nelle scuole”[1] e da sostituire a ciò che Paccino piuttosto auspicherebbe, cioè la storia naturale. L’intelligenza, l’acutezza dell’autore, che fu partigiano della Resistenza, sta in questo: riconoscere che al centro, e anzi prima degli umani, non c’era il nulla bensì la natura con la sua storia, e che “una cultura ecologica, per dirsi tale, non può non confrontarsi con una politica del territorio”[2].

[1] Paccino, L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura, Einaudi, 1972.

[2] Paccino, p. 92

Tra storia naturale e politica ecologica

In questa visione, ecologia non è necessariamente parola da rifiutare in favore di “storia naturale” – ammette Paccino –, ma ha senso tenere la parola a patto di riconoscere che “oggi si parla di ecologia, oltre che come studio dell’organizzazione ambientale naturale, anche come politica ecologica” nella consapevolezza che “non c’è più nulla di intatto da conservare, e l’alternativa è sempre fra conservazione di ecosistemi già alterati dall’attività umana, o promozione di nuovi ecosistemi mediante nuovi interventi antropici”[1].

Non è un pensiero dell’origine quello di Paccino, le cui riflessioni risuonano nelle contemporanee speculazioni di Donna Haraway che ne Le promesse dei mostri ci avverte: “Non abbiamo bisogno di muoverci all’ “indietro” verso la natura, occorre puntare altrove, spostarsi attraverso una natura sociale artefatta” e non per rimanere imbrigliati in un costruttivismo che è inizio e fine della storia, ma proprio in vista del materialismo che sta a cuore anche a Paccino. È la politica, è il conflitto insomma che non deve andare perduto, mentre si ha a cuore la materia.

Marco Armiero firma una acuta introduzione ai saggi di Giorgio Nebbia, vero e proprio pioniere del movimento ambientalista, professore di chimica nonché parlamentare, in cui parte da questo punto: “per capire la storia dell’ambientalismo italiano – e per la verità non solo quello italiano – bisogna guardare al conflitto” benché possa suonare strano che la natura non sia “lo spazio dell’unanimismo, il luogo dove tutti concordano e cooperano”[2].

[1] Paccino, p. 13

[2] Marco Armiero, “Ribelli. Naturalmente”, introduzione a Giorgio Nebbia, La contestazione ecologica. Storia, cronache e narrazioni, a cura di Nicola Capone, La scuola di Pitagora, Napoli, p. 7.

Il filo del danno

È proprio questo particolare accento sul conflitto che ha in effetti connotato più l’ambientalismo italiano che altre forme diffuse e ora dominanti del discorso ecologista. E questa è una storia così preziosa che varrebbe la pena di riprenderne il tracciato, meticciarla con le ricerche contemporanee, tradurla e diffonderla. Uno degli scrigni in cui è custodita è Che cos’è l’ecologia. Capitale, lavoro e ambiente di Laura Conti, partigiana e medica, che offre a partire dal suo sapere situato, il nocciolo del ragionamento ecologico: parlare di ecologia significa per lei innanzitutto partire dall’inquinamento e da ciò che attraverso di esso si può via via vedere e ricostruire, quindi la salute umana che come medica ha a cuore in primo luogo; questo concerne, allora, innanzitutto i lavoratori, ossia coloro che sono i primi a essere a contatto con sostanze tossiche che inquinano l’ambiente e mettono a rischio la loro salute. È il filo del danno che bisogna seguire, la materia tossica e ciò che produce, prima per gli operai, poi per chi vive nei pressi della zona inquinata, via via allargando il campo.

Un movimento dal basso

Non si fa a meno del conflitto in questa ecologia perché non si fa a meno del territorio. Non c’è spazio per una ecologia che sia esclusivamente dall’alto, con ciò che ne discende in termini di sperequazione e ingiustizia. A rinnovare i movimenti sociali per la giustizia ambientale e climatica oggi è un rinnovato spazio che si è aperto dal basso, dopo una stagione dominata dalle COP e da una discreta fiducia nel governo globale del clima, come mostrano bene Paola Imperatore e Emanuele Leonardi in L’era della giustizia climatica (Orthotes, 2023).

Forse a questo è dovuta la recente, accanita criminalizzazione degli eco-attivisti in Italia, sulla base di una nuova normativa modellata sul repertorio di protesta più in uso, come l’imbrattamento di opere d’arte o di edifici. Le vernici sono lavabili e il danno non può essere permanente, ma il conflitto è aperto e non accenna a cedere, e le risposte governative non fanno che confermarlo!

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