Perché parlare, oggi, di missione politica?
«La scienza politica deve darsi una sola missione, al di là del pluralismo metodologico ed epistemologico: quella di essere la scienza della democrazia, o meglio ancora, la scienza per la democrazia». Così si esprime Luca Verzichelli, Presidente della Società italiana di Scienza Politica (SISP) in una recente intervista pubblicata dalla rivista “Pandora”, richiamando la Scienza Politica alla necessità di accettare la sfida posta dai più recenti e drammatici accadimenti che scuotono le società contemporanee.
Come si posiziona la scienza politica di fronte alla fine delle ideologie?
Il politologo senese ha giustamente evidenziato l’esigenza che, da un lato, la ricerca politologica irrobustisca l’insieme delle connessioni con le altre scienze sociali
evitando il «confinamento, attraverso divisioni spesso arbitrarie che allontanano la scienza politica, ad esempio, dal campo della teoria politica o della sociologia politica» e, dall’altro lato, che, nell’articolazione dei propri disegni di ricerca, i politologi non trascurino i fenomeni che si muovono nella società.
Luca Verzichelli si è soffermato in particolare sulla posizione della scienza politica di fronte al falso mito della “fine delle ideologie” e alla necessità di elaborare modi rinnovati di comprensione delle trasformazioni ideologiche e valoriali in corso nella società. A tale riguardo, possiamo dire che non si parte da zero. Esistono, infatti, ampie zone di confine in cui il confronto interdisciplinare, ad esempio, quello basato sull’analisi contestuale, territoriale e storica, risulta abbondantemente praticato e da tempo. Penso, al riguardo (e alla formulazione di questo pensiero di certo influisce la mia formazione “padovana”) all’insieme di studi dedicati alle culture politiche, ma penso anche a tutti i possibili sviluppi innovativi legati a studiose e studiosi che analizzano l’evoluzione nel tempo di movimenti sociali e partiti.
Storiografia e cultura politica
Recentemente, un grande studioso che ha sempre praticato forme proficue di ibridazione fra scienza politica e storia, quale Mario Caciagli ha sostenuto:
«Se il ricorso alla storiografia è forse imprescindibile per tutta la scienza politica, lo è sicuramente per lo studio della cultura politica. Nel variegato materiale fornito dalla storiografia si ritrovano le origini e i componenti di una cultura politica».
In effetti, esistono tradizioni di ricerca che confermano quanto afferma Caciagli: sin dai primi studi sulla partecipazione politica degli italiani, abbiamo le analisi dell’Istituto Cattaneo di che si concentrano sulla ricostruzione di contesti specifici utilizzando diversi metodi di ricerca. Nel più vasto contesto europeo un altro grande studioso eclettico, quale il norvegese Stein Rokkan, abitante delle fertili “terre di mezzo” fra scienza politica, sociologia e storia, propone di interpretare il nesso fra offerta partitica e culture politiche diffuse, in base ai conflitti politici di lungo periodo, ricostruendo l’importanza della loro strutturazione nel tempo e nello spazio.
Esistono ancora linee di frattura?
Rokkan lavorava circa mezzo secolo fa e analizzava le fratture e gli allineamenti ideologici della società e della politica europee del Novecento.
Oggi il contesto è mutato, ma non ritengo affatto fuori luogo chiedersi se possano emergere nuovi tipi di linee di frattura, in grado di strutturare in modo relativamente stabile gli schieramenti politici. Ed è quanto nel secondo numero di “Altopiano. Rivista di analisi politica” (Castelvecchi editore) Luigi Di Gregorio ed io proviamo a fare. In particolare,
ci chiediamo se è ancora utile occuparci delle linee di frattura, in una fase storica in cui i partiti hanno perso un po’ ovunque il potere di rappresentanza di gruppi o classi sociali.
Soprattutto, a seguito dei processi di personalizzazione e di mediatizzazione che hanno reso sempre più rilevante la fenomenologia del (o della) leader e la sua capacità strategica di agire in senso market oriented.
Città e campagna
Eppure, in particolare dopo il referendum sulla “Brexit” e l’elezione di Trump come presidente degli Stati Uniti, ha iniziato a diffondersi tra analisti e studiosi l’ipotesi di un ritorno della rokkaniana frattura città-campagna, perché
in diverse democrazie nei grandi centri urbani tende a vincere la sinistra liberal-progressista, mentre nelle aree periferiche tende a vincere la destra conservatrice.
In realtà, questa lettura poco ci persuade, a causa dell’indeterminatezza del secondo termine della contrapposizione. Il conflitto fra la “città” e la “campagna” scaturiva dalla rivoluzione industriale e comportava spopolamento della “campagna”, urbanizzazione, conflitto fra le politiche a sostegno del settore industriale (secondario) e quelle a sostegno del settore agricolo (primario). Ma oggi circa 3 lavori su 4 ricadono nel settore dei servizi (terziario). Appare evidente che la frattura che oggi si esistente tra voto metropolitano e voto periferico abbia un’origine diversa, legata alle dinamiche della globalizzazione e ai suoi contraccolpi (non solo economici ma anche culturali).
La nostra linea di ricerca
Se tutto questo possa diventare la base per una linea di frattura solida e duratura, da cui scaturiranno elementi strutturali, valoriali e organizzativi coerenti nei prossimi anni è presto per dirlo. Tuttavia, quanto più si polarizzeranno diversi modi di guardare al mondo contemporaneo e ai processi che lo stanno trasformando, tanto più sarà verosimile che i margini per la politica market oriented si ridurranno, in favore di un nuovo allineamento ideologico che potrebbe ristrutturare
lo spazio politico delle democrazie occidentali. E questa è una linea di ricerca che, assieme a colleghi quali Luigi Di Gregorio, Giorgia Serughetti, Paolo Graziano, Matteo Zanellato intendiamo perseguire, anche attraverso le riflessioni che transitano per la rivista “Altopiano”. Ed è solo un esempio dei filoni che, su quelle pagine, stiamo perseguendo (fra cui, il “ritorno” delle ideologie, con Michele Sorice e Manuel Anselmi, il cambiamento dei valori fra i giovani, con Loredana Sciolla, Paola Torrioni, ecc.).
Esiste una notevole crescita di riviste specialistiche in grado di coprire ormai l’intero universo delle scienze sociali. Questo è un fattore positivo e riflette l’evoluzione di queste discipline. Tuttavia, “Altopiano” si prefigge obiettivi differenti: non persegue la specializzazione, bensì intende lavorare sulle connessioni. Le studiose e gli studiosi che hanno dato vita a questa rivista fanno propria la precisazione che Leonardo Morlino scrisse nel 1989 all’inizio del suo volume intitolato “Scienza Politica” (Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli):
«Il problema è oggi quello dei rapporti fra i campi del sapere, invece che di confini, come si poneva prima. Anzi, paradossalmente, i contributi più significativi sono venuti proprio da settori intermedi tra filosofia politica e scienza politica, tra storia e scienza politica, tra economia e scienza politica, tra sociologia e scienza politica».
Sono passati 34 anni da allora e quanto indicato da Morlino continua a essere una traccia buona da seguire.
In questo senso, “Altopiano” aspira ad essere un crocevia tra discipline differenti e un luogo il più possibile aperto e inclusivo. Per partecipare, per quelle che sono le nostre possibilità, alla discussione pubblica con contributi che possano contribuire a mettere a fuoco alcune questioni politiche e sociali contemporanee.
Altopiano
La scelta del nome “Altopiano” è un omaggio esplicito a un libro che personalmente ci è molto caro: I piccoli maestri di Luigi Meneghello (Feltrinelli, 1964; Rizzoli-Bur, 1976).
È un richiamo per noi altamente simbolico. Negli anni Quaranta l’Altopiano di Asiago è stato il luogo di rinascita per alcuni giovani italiani che scelsero la via impervia del dissenso e della rivolta rispetto alla dittatura, contribuendo a porre le basi per il mondo di poi, come descritto magistralmente da Meneghello. Molto più modestamente, il nostro auspicio è di mettere a disposizione questo nostro piccolo “Altopiano” cartaceo come spazio di riflessione e confronto per quanti continuano a ritenere importare agire “per la democrazia”.