Riflettere sull’elemento digitale può essere fatto in molti modi e da molteplici punti di vista. Negli ultimi dieci anni, in giro per il mondo, c’è stato un fiorire di testi e letture critiche sugli aspetti problematici che la cosiddetta “rivoluzione digitale” porta con sé. Anche nel nostro paese si sono moltiplicate le voci fuori dal coro, soprattutto da cinque anni circa a questa parte.
La maggior parte di queste voci si concentra sugli aspetti legati ai diritti digitali. Alcune si soffermano sulle importanti questioni legate alle rappresentazioni delle minoranze oppresse o sulle dinamiche dei bias e sulle loro conseguenze nel quotidiano e a livello politico.
Altre si concentrano su aspetti più legati alla cronaca, dalle monete digitali, agli nft, all’intelligenza artificiale e le sue applicazioni positive e negative. Poche, pochissime, di queste voci si azzardano ad operare uno sguardo critico sistemico che tenga conto della dimensione infrastrutturale, legata all’analisi delle piattaforme, degli algoritmi e dei protocolli da un punto di vista sociale, culturale, tecnico ed ecologico.
Digitale: una critica trasversale
Ci siamo accorte che era indispensabile andare più a fondo per osservare e tentare di riconfigurare le logiche culturali che innervano l’ambiente tecnico in cui viviamo. Perciò siamo andate alla ricerca di saperi altri, apparentemente lontani dalle questioni informatiche, e legati agli studi e alle pratiche femministe, queer, decoloniali, antispeciste, per acquisire uno sguardo diverso sulla norma strumentale dell’informatica del dominio ed elaborare una possibile via di fuga.
Va detto che anche l’aspetto della filiera hi-tech è troppo spesso completamente obliato, rimosso. Tutti sappiamo delle miniere dei metalli rari, volto feroce del capitalismo digitale, delle gravi problematiche legate all’impatto ambientale e alle terribili condizioni di lavoro che comporta l’estrazione dei materiali indispensabili alla costruzione dei nostri dispositivi. Tutti sappiamo, ma preferiamo voltare lo sguardo dall’altra parte.
Così come è noto da tempo lo stato in cui si trova ad operare chi lavora nelle fabbriche del sud-est asiatico in cui vengono assemblati e prodotti i device che usiamo. E che dire della quantità di energia elettriche che consumiamo direttamente, per ricaricare gli strumenti digitali, o indirettamente quando mandiamo un messaggio in chat, un video, una foto, quando usiamo un social media, quando facciamo una call o mandiamo una mail.
Quando guardiamo un film. Per ognuna di queste operazioni, devono essere connessi e online un certo numero di server, visto che quasi nessuno usa più le risorse – programmi e files – in locale.
L’elemento digitale va dunque indagato trasversalmente mettendo in relazione i suoi molteplici volti – le innovazioni, i risvolti sociali, le implicazioni ambientali, le questioni del lavoro – con i suoi presupposti culturali e le sue epistemologie.
Diversamente, si rischia di non comprendere il fenomeno e di rimanere vittima di proiezioni fantastiche e ingenue sulla tecnologia. O, almeno, questo è quello di cui abbiamo fatto esperienza dopo anni di ricerca indipendente e politicamente orientata: dai software liberi e le loro pratiche di cooperazione e condivisione all’indagine critica sui social media e le piattaforme commerciali di comunicazione, fino agli studi sulla governamentalità algoritmica tra anarcocapitalismo e dispotismo tecnocratico.
Strumenti, autonomia e cambiamento di paradigma
Da qui la consapevolezza che è urgente rielaborare i valori che abbiamo ereditato e che dominano il mondo globalizzato, e questo avviene congiuntamente intervenendo sulle consuetudini e le norme perché la vita di oggi è in maggioranza vincolata e soggiogata da norme tossiche.
Di fatto si origina un doppio movimento, perché se è primario agire sui costrutti culturali, etici e politici, è altresì basilare smontare la norma strumentale che riduce ogni esistente, vivente o non vivente, ogni oggetto tecnico, a utile strumento di dominio. Detto altrimenti, nella norma strumentale siamo tutti oggetti tecnici utili al profitto altrui.
Infatti, se ogni soggetto organico o inorganico deve rispondere unicamente alla domanda “a cosa serve? a cosa è utile?”, ossia alla domanda “funziona?” vuol dire che è intellegibile per l’umanità del XXI secolo esclusivamente in quanto un elemento subalterno il cui senso è dato dalla sua performatività. Se le relazioni che instauriamo con persone, animali, piante, elementi naturali, oggetti artificiali diventano possibili per noi solo se ridotti a strumenti, allora il dominio sull’altro non avrà mai fine, e con esso lo sfruttamento e la sopraffazione.
Ecco perché dobbiamo ripensare non solo lo strumento ma anche il rapporto con esso, cioè la relazione, nel doppio senso di relazione-con e relazione come apertura. È indispensabile lasciar cadere il comando a competere e consumare, a primeggiare sulla pelle degli altri, a performare la maschera del vincente. Se riusciamo a interagire con “gli altri” non come elementi utili al nostro tornaconto e di cui approfittare ma come specie compagne quello che si verifica è un’apertura, elastica, mobile, duttile che può produrre una conoscenza disinteressata.
Sintetizzando, bisogna lavorare su tre livelli interdipendenti tra loro: strumenti, autonomia, norma
Un primo livello è quello dell’uso degli strumenti. Si comincia con l’intervenire sugli strumenti commerciali che usiamo tutti i giorni. Settarli per far sì che la nostra privacy sia un po’ più tutelata, ma a un certo punto il passaggio immediatamente successivo è cercare di capire quali strumenti (meglio se FLOSS) possiamo usare che ci profilino il meno possibile, cioè che non siano compromessi con questa dinamica di appropriazione delle nostre vite.
Un secondo livello ha a che vedere con il controllo interiorizzato e come invece giocare una carta di autonomia, di auto-organizzazione collettiva, anche digitale. Le nostre pratiche ci formano e ci modellano, siamo schiacciate nella dimensione del consumatore in una evidente cornice semantica tutta orientata al marketing, all’individualismo, al narcisismo, alla competizione e alla quantificazione.
Il terzo livello è quello epistemologico, per evitare di riprodurre le stesse dinamiche di potere nel momento dell’auto-organizzazione collettiva. Semplificando, per dare vita a una alterità radicale dobbiamo fare una cosa che gli antichi cinici avevano espresso in maniera formidabile: cambiare la norma.
In copertina Michael Dziedzic on Unsplash