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Quale futuro per le piattaforme


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Articolo inserito nell’ambito della rubrica Algo-cracy
a cura dei ricercatori Jacopo Caja e Jacopo Tramontano


Le piattaforme digitali rappresentano una rivoluzione tecnologica, ma anche un fenomeno da governare. Sono il prodotto di trent’anni di processi del capitalismo, e di scelte politiche ben precise. Ma è possibile regolamentarle, e crearne di nuove per il bene comune.

All’inizio dell’epoca delle piattaforme digitali, sembravano prospettarsi infinite opportunità, si coniavano termini nuovi come sharing economy, che teorizzavano una società in cui la proprietà individuale sarebbe stata sostituita dalla collaborazione digitale. A pochi anni di distanza, la realtà sembra aver prodotto risultati molto diversi e i benefici portati dal digitale sembrano essere stati eguagliati da altrettanti lati controversi.

I rider che consegnano il cibo sono diventati il simbolo di questo nuovo modello: i loro incarichi sono mediati unicamente tramite la piattaforma, svolgono una mansione fisica, ma sono inquadrati come lavoratori autonomi e perciò senza tutele e assicurazioni. Anche il dibattito pubblico sull’argomento ha cambiato prospettiva, acquisendo sempre più toni pessimistici e distopici. Le piattaforme digitali sono ormai associate a storie di precarietà conflitto sociale.

È inevitabile che il lavoro di piattaforma produca condizioni degradanti?

Questa evoluzione apre a una domanda fondamentale: è inevitabile che il lavoro di piattaforma produca condizioni degradanti? Rispondere a questa domanda vuol dire cercare di capire se questo nuovo modello di business sia intrinsecamente problematico, o se invece produca esiti problematici perché innestato all’interno di un sistema che favorisce relazioni di lavoro insicure.

È impossibile fornire una soluzione a questo quesito senza allargare lo sguardo, in almeno due direzioni. Prima di tutto partendo da una prospettiva storica. Il modello di business di piattaforma sicuramente ha alcuni lati peculiari. Estrae e utilizza i dati in maniera estensiva, usandoli come fonte di valore. E queste nuove aziende, almeno inizialmente, non cercano di massimizzare i profitti, ma piuttosto di porsi come infrastrutture cardine all’interno dei settori in cui operano, orientando – se non addirittura creando da zero – interi mercati.

Allo stesso tempo però, rispetto alle relazioni di lavoro, le piattaforme si inseriscono all’interno di tendenze radicate che hanno portato verso una frammentazione e parcellizzazione degli impieghi. E quindi l’emergere di questo nuovo modello non può essere inteso senza considerare le evoluzioni che ne hanno facilitato l’ascesa, e le responsabilità politiche ed economiche degli attori coinvolti.

Transizione complicata

Dagli anni Settanta, il modello fordista entra in crisi nei paesi avanzati, a causa della crescente competizione globale. In questo contesto, inizia una transizione complicata, che negli anni Novanta porta alla definizione di un nuovo sistema di organizzazione e produzione. Non riuscendo più a dominare la competizione tecnologica come un tempo, le aziende e i sistemi nazionali si focalizzano sull’ottimizzazione dei costi. Da qui, le relazioni contrattuali iniziano a individualizzarsi e diventare più flessibili, favorendo la crescita degli impieghi atipici, soprattutto per categorie come i giovani, le donne, gli stranieri.

Bisogna sottolineare come questi cambiamenti, sia a livello di organizzazione industriale che di istituzioni del lavoro non avvengono unicamente a causa di forze esterne. Le grandi imprese hanno deciso, in seguito alla liberalizzazione dei movimenti di capitali e alla crescita del settore finanziario, di orientarsi sempre più alla massimizzazione del valore per gli azionisti a scapito di quello legato a una comunità nazionale o ai propri lavoratori. Questi ultimi sono diventati perciò intercambiabili, mentre una classe manageriale globale cresceva all’ombra dei distretti finanziari globali.


United States President William Jefferson Clinton (right) and Prime Minister Tony Blair of the United Kingdom, at the Council table.

Allo stesso tempo, le forze politiche, anche quelle progressiste, e con loro i sindacati hanno assecondato questo processo. La sinistra, da Tony Blair in poi, si è rinchiusa in un ruolo rigorista nei conti pubblici e permissivo nei confronti dei mercati, senza guardare alle crescenti disuguaglianze, all’insieme di lavoratori lasciati indietro dalla globalizzazione e dalla rivoluzione digitale, e ai nuovi bisogni che provenivano dall’emergere di processi nuovi. Come, per esempio, l’economia delle piattaforme digitali. Le forze politiche non l’hanno vista arrivare, e sono ancora flebili i tentativi di regolamentazione del fenomeno.

Il processo di piattaformizzazione

Guardare a queste dinamiche di lungo corso serve per capire da dove arrivano i problemi, ma bisogna anche fare l’esercizio di immaginare delle risposte. Per questo, è fondamentale guardare all’economia di piattaforma nella sua interezza, e non limitarsi ai soli rider. Analizzando nuovi settori e industrie che sono entrate o stanno entrando dentro il processo di piattaformizzazione. Ad esempio, i servizi di cura e di welfare stanno venendo inglobati all’interno di questo nuovo modello, ma sviluppando dinamiche peculiari. Non si è ancora visto l’emergere di monopoli internazionali e – specialmente per i professionisti più qualificati – la mediazione digitale ha favorito il rapporto con i pazienti.

In altri casi però, la piattaformizzazione ha riprodotto le criticità esistenti, in parte ampliandole, come mostrato da Claire Marzo per le  piattaforme di lavoro domestico, e da Margherita Di Cicco per OnlyFans. O andando ancora oltre, all’interno delle industrie ad alta specializzazione, molte componenti sono ormai automatizzate e rese più efficienti tramite meccanismi di piattaforma, producendo circoli virtuosi di incremento della produttività. Gli effetti non si limitano solo ai lavoratori: anche i quartieri e le città, come racconta Gianluca Bei nel caso di AirBnB, sono profondamente colpiti dall’accelerazione che la piattaforma ha dato al mercato degli affitti brevi.

Infine, serve guardare anche a modelli alternativi, indipendenti dall’operato dei grandi gruppi digitali, ma che comunque sono riusciti o potrebbero riuscire a ritagliarsi un ruolo significativo. Ormai un decennio fa, negli Stati Uniti è nato il movimento del platform cooperativism, con l’obiettivo di applicare le forme democratiche delle cooperative all’interno delle nuove dinamiche digitali. C’è chi lo giudica un’idea effimera e di potenziale solo locale, e chi crede possa avere un ruolo più ampio, magari sotto la guida delle municipalità e della pubblica amministrazione.

Per riscoprire il potenziale positivo delle piattaforme, servono tutti questi elementi. Capire in che macro-contesto si sono inserite, studiare in che direzioni si stanno muovendo, e cercare di tracciare dei limiti per guidarle verso una direzione migliore.

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Nella rete del capitalismo. Lavoro – Assalto alle piattaforme

Prosegue Nella rete del capitalismo, un ciclo di incontri per comprendere le tendenze del capitalismo contemporaneo a partire dall’impatto dell’economia di piattaforma sul mercato del lavoro.

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