Riflettendo sulla natura delle dimostrazioni organizzate nel 1998 per protestare contro il summit del G8 a Birmingham, che doveva celebrare il quindicesimo anniversario della fondazione dell’Organizzazione mondiale del commercio, Naomi Klein scriveva che i manifestanti scendevano in strada per riappropriarsi degli spazi pubblici. Dopo un periodo in cui le strade, le piazze erano state dominate dai marchi, simboli del capitalismo globalizzato, una popolazione multiforme – dai contadini brasiliani sfruttati ai disoccupati francesi, dai lavoratori italiani e tedeschi ai gruppi internazionali per i diritti umani – e multi-età – giovani e meno giovani, quarantenni o sessantenni – decise di riprovare a conquistare lo spazio pubblico, provando ad immaginare un mondo diverso, fatto di partecipazione “dal basso” e dalla ricerca di nuovi modelli di sviluppi, rispetto a quello in cui avevano vissuto fino ad allora.
“La resistenza sarà transnazionale proprio come il capitale”, scriveva Klein in un passaggio più volte menzionato del suo libro. Gli anni Novanta, infatti, si stavano chiudendo con la definitiva trasformazione del contesto economico e politico in senso definitivamente globalizzato. Era il quadro in cui la versione neoliberale veniva ormai ampiamente accettata tanto dai socialdemocratici quanto dai conservatori, come hanno spiegato in tempi recenti Tommaso Detti e Giovanni Gozzini.
Il Sessantotto
In quel panorama, di fronte ad una sfera politica, specialmente per quanto riguardava il mondo occidentale, capace sì di mettere in campo limitate riforme sociali ma anche di implementare gli strumenti repressivi e di fatto incapace di ridurre le diseguaglianze, gruppi e movimenti dalla diversa estrazione politica decisero di spendersi e muoversi per proporre nuovi schemi e nuovi orizzonti: se le origini di quel protagonismo politico, come spiega Colin Crouch nel saggio di questa sezione ripreso dall’annale di Fondazione Feltrinelli del 2018, dovevano essere ricondotte al Sessantotto, l’obiettivo dei movimenti e dei nuovi soggetti politici era la messa a punto di un modello di sviluppo antitetico al capitalismo neoliberista.
La reazione dei governi non fu affatto di apertura.
L’articolo di Laura Di Fabio, infatti, lega l’ascesa del dissenso globale all’ulteriore restrizione degli spazi pubblici voluta dagli esecutivi nazionali: una scelta, questa, che ha voluto dire, per l’Italia, la sopravvivenza nel sistema giurisprudenziale di alcune ordinanze prefettizie, dal carattere evidentemente incostituzionale, che limitano ancora oggi il diritto di circolazione e di manifestazione nelle cosiddette zone “rosse” e “gialle”. Ma dei lasciti positivi sono altrettanto evidenti e da questi, forse, bisognerebbe ripartire per immaginare un nuovo modello di sviluppo: è quanto ci suggerisce Massimiliano Livi nel suo testo a conclusione di questa rassegna, grazie al quale il lettore potrà cogliere come la dimensione effettivamente globale dei movimenti sia emersa a seguito della comparsa del popolo di Seattle il 30 novembre 1999 e di come ancora oggi segni lo scenario politico dei paesi più diversi.
Proprio per questa ragione, dunque, i movimenti, che pur presentano caratteristiche e nature differenti, devono essere intesi come la medesima risposta mondiale ad un’insoddisfazione e ad un’inquietudine, appunto, mondiale.