I testi che qui vengono ripresi di Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone e Furio Jesi compaiono sul numero del gennaio 1970 di “Resistenza. Giustizia e Libertà”, mensile di attualità politica e culturale, rivista dell’Istituto piemontese per la Storia del Movimento di liberazione in Italia.
Sono tre interventi che escono nei giorni caldi del dopo 12 dicembre e certamente ne registrano stati d’animo, domande, preoccupazioni. Ma non solo.
Quello che questi tre diversi interventi propongono è un laboratorio di indagine di “lunga durata” della storia italiana e dell’immagine di noi.
Con il 1969 finisce lo sguardo di fiducia volto al futuro, e inizia uno sguardo retrospettivo volto a riflettere sui ritardi strutturali, le inefficienze, i “luoghi bui” della storia italiana.
Gli anni ’60 italiani segnano varie trasformazioni. Una tra queste è legata alla scena del 12 dicembre. L’Italia entra in quel decennio con la fiducia dello sviluppo e che alla fine di quello stesso decennio si chiede quale futuro abbia o, più semplicemente, che cosa gli riservi per il futuro un presente sempre più percepito come oscuro.
Qui sta la dinamo intellettuale di questi tre diversi testi. Tre testi che colgono il 12 dicembre come novità, ma allo stesso tempo lo collocano in una filiera di fatti diversi, di vecchi vizi e permanenze della e nella storia d’Italia con cui è obbligo confrontarsi.
Per questo vale la pena riprenderli in mano. Infatti, se la loro funzione fosse solo quella di confermare uno stato d’animo, o un senso di smarrimento, probabilmente se ne potrebbero trovare altri altrettanto efficaci, forse giornalisticamente anche più tagliati.
Non è questo quello che qui interessa e non è questo il motivo per cui li proponiamo.
Interessa invece quale procedura di indagine e di scavo ciascuno di loro intraprenda; o come facciano intrecciare competenza disciplinare, biografia culturale, e senso della ricerca, una dimensione in cui si incrociano e si sovrappongono il profilo culturale, le sensibilità, la funzione civica del proprio sentirsi intellettuali (e non semplicemente “colti” o “eruditi”) di ciascuno di loro.
In forma diversa, ciascuno con le proprie competenze e con le domande che si originano dai propri interessi, Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone e Furio Jesi si chiedono che cosa voglia dire assumersi la responsabilità di pensare.
Ma andiamo con ordine.
Norberto Bobbio
Norberto Bobbio (1909-2004) ha terminato da meno di un anno quello che forse è il suo saggio di storia culturale italiana più strutturato. Si tratta del Profilo ideologico del Novecento italiano ed è il saggio di storia culturale che apre l’opera La Storia della Letteratura italiana, coordinata da Emilio Cecchi Natalino Spegno, di cui il volume IX è dedicato al Novecento (il volume esce nel 1969). Ma il saggio di Bobbio ha una storia tutta sua.
Dopo l’edizione garzantiana del 1969, il Profilo ideologico del Novecento di Norberto Bobbio fu ripubblicato nel 1972 dalla Cooperativa Libraria Universitaria Torinese (CLUT) sotto forma di dispense per gli studenti del corso di Filosofia della politica, di cui Bobbio era titolare nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Torino, con l’aggiunta di una Premessa e di due capitoli, I cattolici e il mondo moderno e Croce oppositore. Nel 1986 Einaudi accolse questa edizione ampliata nella «Biblioteca di cultura storica», con l’aggiunta di una Postfazione. L’anno successivo apparve nella nuova edizione del “Cecchi Sapegno”, nel primo dei due volumi dedicati a “Il Novecento”, con l’esclusione della Premessa e della Postfazione ma con l’aggiunta di altri due capitoli, La democrazia alla prova e Verso una nuova repubblica? Nel 1990 Garzanti ripubblica il Profilo in un volume a sé stante della collana «Gli elefanti-Saggi», con tutte le aggiunte, una nuova.
Quel testo dunque si colloca a cavallo tra due fasi: da una parte una lettura del secondo dopoguerra che si ferma a rileggere la prima metà del ’900, ma poi subito la necessità di fare i conti con l’Italia repubblicana, con le incertezze, l’instabilità, il rinnovamento parziale della politica.
Per Bobbio ciò che si chiude con il 1945 è un momento della storia italiana, che soprattutto per lui rimane sospesa intorno alle figure di una ricerca di una nuova Italia o alla affermazione di un nuovo costume che stenta a individuare nell’Italia della prima repubblica (in quel caso saranno le figure di Leone Ginzburg, di Giaime Pintor) ma anche il fatto che ancora quella italiana gli appare una società viscosa, che con difficoltà riesce ad uscire dalle secche di un sistema autoritario, in cui rimangono profondi – prima ancora che forti – elementi culturali, mentali, di un regime. In breve: senza negare una trasformazione, la indicazione di elementi strutturali di permanenza e di “continuità” di un regime nella storia italiana.
Ma soprattutto è uno stile quello che Norberto Bobbio inaugura con questo suo testo. Uno stile che poi ritornerà costante in tutti gli interventi pubblici degli anni ’70 e ’80 tanto da costituire un profilo culturale e una modalità di discussione.
Lo stile è quello di proporre un termine, analizzarlo in molte sue variabili, proporre i percorsi che da ciascun approccio derivano e non concludere, ma dotando il lettore di tutti gli elementi di critica per non essere “nudi”. Nel gennaio 1970 tocca a “violenza”, poi in quel decennio saranno “Stato”, “democrazia”, “marxismo”, “laicità”, tanto per considerarne alcuni.
Alessandro Galante Garrone
Non diversamente per Alessandro Galante Garrone (1909-2003) che qui ritorna su un tema a lui molto caro e su cui insisterà moltissimo tra anni ‘70 e anni ’80: quello della necessità di rimuovere i molti elementi che nel sistema penale, nella mentalità giudiziaria, comunque nella forma dell’amministrazione del diritto richiamano la questione del Codice Rocco. Non casualmente quel tema tornerà negli anni successivi ogni qualvolta si tratterà non tanto di indicare una distorsione del diritto, ma di pensare una compiuta riforma democratica dello Stato, soprattutto il rispetto per la libertà del cittadino.
Non a caso lo richiamerà ancora nel giugno 1973 a proposito della donna, di poter decidere della interruzione di gravidanza. E, soprattutto, siamo nel febbraio 1983 quando riflette – dietro le suggestioni di Edoardo Ruffini, cui lo legava una lunga storia della sua formazione universitaria con il padre, Francesco – sul crinale debole tra principio maggioritario e principio autoritario, in un’epoca in cui si parla di riforma elettorale.
In quell’occasione, siamo nel febbraio 1983, il richiamo è utile per sottolineare come il principio maggioritario se non ben regolato rischia di trasformarsi in principio autoritario mosso e sostenuto, scrive, “dall’intolleranza da parte di chi detiene il potere”.
Un’idea e un rovello che appunto datano da molto tempo, almeno da quelle giornate scure di dicembre 1969 e in cui appunto ritorna la memoria del suo professore Francesco Ruffini, cui lo lega non solo un affetto o una riconoscenza, quanto, soprattutto, il rispetto di saper fare scelte controcorrente in un’Italia (quella del giuramento al regime) dove era facile essere conformisti. Una riflessione che ancora a cinquant’anni di distanza dalla morte di Ruffini, commemorandolo a Borgofranco, vicino a Ivrea, il 13 ottobre 1984, ripropone attraverso le parole che Ruffini fa sue dal Machiavelli delle Istorie fiorentine [Libro II, §.34], laddove il fiorentino scrive: “forza alcuna non doma – tempo alcuno non consuma – merito alcuno non contrappesa – il nome della libertà”.
Furio Jesi
Infine Furio Jesi (1941-1980) il più giovane dei tre e che da tempo ha avviato le sue ricerche sul tema del mito della costruzione del colpevole e del capro espiatorio (della punizione nei confronti di chi si qualifica rivoluzionario nelle congiunture incerte del primo Novecento. Sono di quei mesi le sue note sul movimento spartachista che usciranno solo postume per cura di Andrea Cavalletti) e l’avvio delle sue ricerche sull’”Accusa del sangue”, un testo che di nuovo ha al centro l’accusa a colpevoli inventati dalla macchina inquisitoriale, saggio che pubblicherà nel 1973 e che poi sarà più volte ripreso, che sbocca nelle indagini sul molte culture di destra le quali occuperanno una parte essenziale del suo progetto di ricerca sulla macchina mitologica, che fissa teoricamente nel saggio dal titolo Il mito la cui prima edizione è del 1973 (le pagine sulla macchina mitologica sono quelle di chiusura del libro). Un tema, quello della “macchina mitologica”, che è destinato a segnare una profonda innovazione nella storia della critica, ma anche nell’indagine sulle forme culturali della crisi.
Tre laboratori diversi, ma soprattutto tre sensibilità culturali che non rimangono chiuse all’interno del proprio guscio, che si misurano con le molte domande che si affollano alle soglie di un decennio “di svolta” nella storia italiana, ma che sente anche di dover fare i conti e un bilancio di che cosa sia l’Italia del dopoguerra, dove stiano i suoi punti critici, che cosa non abbia funzionato, dove stiano i suoi non detti, quali siano le sfide per essere – non solo per credersi – moderni e democratici.