Leggi lo speciale editoriale
dedicato al ciclo di Workshop
1989. Sotto le macerie del muro
Testo di Valeria Finocchiaro
La caduta del Muro di Berlino sembrò sancire il superamento delle dicotomie che avevano caratterizzato il Novecento.
Apparentemente, infatti, con la caduta dei regimi dell’est Europa si sarebbe aperta per tutti una stagione di libertà, di prospettive, di benessere, la fine della storia, il trionfo della globalizzazione e del capitalismo. A distanza di diversi decenni sembra lecito chiedersi se fu davvero così che andarono le cose e perché, eventualmente, gli eventi presero una piega imprevista.
La prima dicotomia che sembrò cadere insieme al Muro fu quella tra oriente e occidente, e insieme a questa, in una sorta di effetto domino, tutte le altre opposizioni del secolo precedente.
Leggi l’articolo di
Jacopo Perazzoli
Università degli Studi di Bergamo
Cos’è la Terza Via?
Da un lato il libero mercato, la competizione, il privato, la governance; dall’altro la pianificazione dell’economia, lo Stato, il partito, la statalizzazione. Verso la fine del secolo emerse però nel grembo dei partiti socialdemocratici europei un orientamento che aveva l’ambizione di “superare” questa precedente divisione: la coddetta “Terza Via”, termine già presente nel dibattito politico dall’inizio del secolo ma reso celebre da Anthony Giddens, sociologo britannico e ideologo del partito laburista nell’epoca blairiana.
La Terza Via si proponeva di superare la tradizionale dicotomia tra destra e sinistra, cercando un punto di equilibrio tra libero mercato e giustizia sociale.
Durante gli anni ’90 tali partiti dovettero confrontarsi con un velocissimo mutamento della struttura economica, sempre più globale, sempre più connessa; non solo, ma gli anni ’80 erano stati gli anni della reazione conservatrice, di Tatcher e Reagan, del grande riflusso e del tramonto delle ideologie:
i partiti socialdemocratici europei erano quindi chiamati ad affrontare una serie di sfide inedite, e la strada che essi intrapresero fu quella di tentare di sintetizzare i due mondi.Possiamo dire che i partiti di sinistra furono all’altezza del compito?
E qual è il bilancio che possiamo fare di quell’esperienza, trovandoci noi oggi nella posizione di interrogare il fenomeno con la minima distanza storica necessaria?
Queste le domande su cui hanno provato a riflettere gli ospiti del secondo workshop della Fondazione Feltrinelli, dedicato a indagare cosa rimane sotto le macerie del Muro di Berlino, a cui hanno partecipato Gerassimos Moschonas, Mario Ricciardi, Jacopo Perazzoli, Massimiliano Boni, Giovanni Scirocco, Luigi Vergallo, Vera Spyrakou, Giandomenico Piluso, Luciano Fasano, David Bidussa, Marco Damiani, Leonardo Casalino, Spartaco Puttini, Lorenzo Costaguta, Niccolò Donati, Enrico Mannari, Goffredo Adinolfi.
Leggi l’articolo di Giovanni Scirocco
Università degli Studi di Bergamo
“New” Labour
Il principale attore della Terza Via fu Tony Blair: presentandosi come un riformatore e un modernizzatore e promettendo di conciliare le politiche di libero mercato con un forte impegno per la giustizia sociale, rilanciò il partito socialdemocratico britannico che sotto la sua egida venne chiamato “New” Labour, per sottolineare la forte carica di innovazione della sua linea politica. Blair entrò nel partito nel 1975 e venne eletto deputato nel 1983, ma fu tra il 1994 e il 1997 che le iscrizioni al Partito Laburista, dopo oltre un decennio di declino aumentarono del 40 per cento, e alle elezioni politiche del 1997 il partito guidato da Blair ottenne il più grande risultato elettorale della storia laburista, con un’ampia maggioranza di 418 seggi su 650.
Ma questo trionfo non fu senza ombre: fin dall’inizio una considerevole opposizione interna sostenne che si trattava semplicemente di una versione moderata del neoliberismo thatcheriano, in quanto incoraggiava principalmente i progressi economici a scapito del principio di eguaglianza.
Le sorti della socialdemocrazia
L’obiettivo del presente workshop, tuttavia, non è quello di fornire una risposta definitiva, bensì quello di porre domande; fra queste, gli ospiti sono chiamati a riflettere sulle sorti della socialdemocrazia europea e occidentale, e in particolare sulla questione che costituisce il filo conduttore del ciclo di incontri, ovvero la questione della separazione fra la sinistra politicamente organizzata e la sua (storica) classe di riferimento: possiamo dire, come si chiede Luigi Vergallo, che l’esperimento della Terza Via sancisce un primo piano di “separazione” fra la sinistra e il suo referente politico, ovvero la classe lavoratrice?
Si tratta, come sanno gli addetti ai lavori, di un argomento che suscita diffuse reazioni polemiche. Secondo una diffusa sensibilità presente soprattutto nelle frange più radicali della sinistra, proprio la Terza Via sarebbe colpevole dello stato di perenne sconfitta in cui si trova attualmente la sinistra europea, e a essa è toccato il ruolo di capro espiatorio per spiegare il declino della socialdemocrazia, come sostiene Marc Lazar: la Terza Via avrebbe tradito le idee storiche della sinistra e sancito il trionfo del neoliberalismo, e sarebbe responsabile della perdita elettorale dei ceti popolari, così come della rottura del legame sentimentale con essi. Ma è davvero così?
What is left, What is right?
Prima di tutto, sostiene Lazar, è necessario inquadrare il problema da un punto di vista storico. Di cosa parliamo esattamente quando parliamo di Terza Via? Parliamo degli scritti di Giddens o dell’agenda politica di Blair e Schroeder, o del loro manifesto politico del 1999? C’è stata una “dottrina” reale della terza via, o si tratta di un insieme di policies, o addirittura di una semplice operazione di marketing (secondo l’idea di Donald Sassoon)?
Poiché abbiamo a che fare, dal punto di vista concettuale, con una categoria politica che non è mai stata sistematizzata in un programma (o meglio, in una dottrina), è necessario tenere presente l’opacità del concetto e i suoi molteplici livelli di lettura. Eppure, nonostante queste difficoltà, la nozione di Terza Via presenta alcuni tratti che possono essere indagati, sia per quanto riguarda il contenuto delle idee politiche, sia per quanto riguarda le modalità, la forma che i vari partiti sceglievano di assumere. Una delle idee ricorrenti fu ad esempio che il capitalismo fosse ormai diventato un capitalismo della finanza internazionale, ovvero un capitalismo globalizzato, e che la globalizzazione fosse ormai un fatto ineluttabile che non potesse essere messo in discussione.
Nuovo capitalismo fin de siécle
Guidati da tali considerazioni, i partiti della Terza Via accolsero con spirito conciliativo il nuovo capitalismo fin de siécle, e lo fecero con un certo ottimismo, abbandonando progressivamente la contestazione per assumere il ruolo di managers di questo nuovo mondo: lasciandosi alle spalle l’idea – faro teorico del marxismo – che la realtà potesse essere cambiata, si accontentarono semplicemente di amministrarla e gestirla.
Non bisognava più opporsi alla globalizzazione, ma approfittare delle opportunità che essa offriva, dando priorità alla crescita, al mercato, agli investimenti individuali, alle imprese e mettendo da parte l’idea che la redistribuzione della ricchezza dovesse avvenire dall’alto, cioè per deliberata volontà politica; in quest’ottica la giustizia (redistributiva e non solo) diventava un processo spontaneo, cioè il risultato del libero corso del mercato,
una volta che esso fosse stato lasciato libero di autoregolarsi senza interventi da parte dello stato.
L’alba di una società “giusta”?
sindacati della classe lavoratriceCome correttivo ai meccanismi scomposti e naturalmente violenti del mercato era tuttavia presente l’idea, che risulta egemone tutt’oggi, delle pari opportunità: una società giusta sarebbe stata una società nella quale gli individui avrebbero avuto tutti le stesse possibilità di accedere alle risorse, indipendentemente dal proprio punto di partenza economico, o da caratteristiche personali come il genere, l’etnia, la religione e l’orientamento sessuale.
L’idea diffusa fra i sostenitori della Terza Via era che fosse sufficiente che una società garantisse a tutti “pari opportunità” di avere successo, per garantire che i talenti di ognuno fossero valorizzati; si trattava certamente di un passo avanti rispetto all’immobilismo di una società rigidamente divisa in classi eppure, come nota Giandomenico Piluso, gli effetti degli investimenti pubblici nel campo – ad esempio – dell’istruzione, hanno effetti differenti in base al sistema economico-istituzionale in cui vengono attuati: in sistemi più in grado di volorizzare il capitale umano le politiche dell’istruzione avranno effetti migliori rispetto alle stesse politiche attuate in sistemi, come quello italiano, dove le diseguaglianze in partenza rendono quasi ineffettive quelle politiche.
Apertura alle idee femministe
Come sostiene Gerassimos Moschonas, è in questi anni che si assiste a una maggiore apertura alle idee femministe, ai diritti delle minoranze, alle istanze ecologiche: i partiti in questione divennero allo stesso tempo “più liberali e più di sinistra”. Tale circostanza venne cristallizzata nel termine, diventato popolare per descrivere quei partiti ormai interamente rinnovati, di new left. La new left fu precisamente questa sinistra che, rispetto alla generazione precedente, era più a sinistra sulle questioni civili, e più a destra sulle questioni economiche e sociali.
Se messi tutti sullo stesso piano, ed eliminando quindi (almeno idealmente) le disparità economiche in partenza, gli individui avrebbero potuto sviluppare se stessi secondo i propri meriti e i propri talenti. Questa fu in sintesi l’idea di giustizia che si impose: non più l’idea dell’uguaglianza a valle, bensì l’uguaglianza nelle opportunità a monte: la formula della giustizia, per quei partiti, non era più “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, bensì “a ciascuno secondo il proprio merito e il proprio impegno”.
Si tratta di uno capovolgimento teorico di portata epocale: l’obiettivo rivendicato dalle socialdemocrazie non era più quello di eliminare le disuguaglianze nella società – le quali avrebbero dovuto invece esistere come rispecchiamento delle differenze fra i talenti – bensì quello di garantire a tutti di partecipare a un gioco le cui regole valessero per tutti allo stesso modo.
Workfare / Welfare
Senza voler qui entrare nel merito di quanto questa idea fosse realistica (o razionale), Lazar rileva come in particolare nel Regno Unito l’idea del workfare abbia sostituito quella del welfare: era necessario concentrare gli sforzi per favorire l’ingresso nel mercato del lavoro di quelli che ne erano tagliati fuori, più che tutelare il benessere della collettività. In questa atmosfera culturale la povertà si sarebbe dovuta combattere attraverso l’accesso al lavoro, e non tramite sovvenzioni, aiuti, welfare.
Tramontava così la collettività e rimaneva l’individuo: la ricchezza passava ora per la propria busta paga individuale, e non dalla partecipazione ai beni comuni, ovvero dalla partecipazione alle risorse collettive, a una ricchezza condivisa con gli altri membri della società.
Un’idea che, come è facile intuire, era pericolosamente vicina al motto tatcheriano del “non esiste la società, ma solo gli individui”.
Se le cose stanno così, è lecito chiedersi che posto abbia avuto la Terza Via nella storia ideologica e politica della socialdemocrazia europea, sostanzialmente una storia di adattamento ai mutamenti della politica, del capitalismo, della società, una storia di continua e costante revisione, che attraversò quasi tutti i partiti socialdemocratici dopo la seconda Guerra mondiale, e che costituì per ognuno di essi un punto di non ritorno: il congresso di Bad Godesberg per la socialdemocrazia tedesca (1959), gli eventi della Bolognina per il Partito Comunista Italiano (1990).
Se occorre tenere in presente le differenze sostanziali di ogni partito nell’affrontare questo mutamento radicale (prima fra tutte il tempismo con cui questo avvenne in ogni paese), è possibile in sede teorica isolare alcuni tratti comuni: in primo luogo la necessità, per quei partiti, di prendere le distanze dall’Unione Sovietica, e poi le privatizzazioni, la precarizzazione del mondo del lavoro e l’aumento delle disuguaglianze, processi via via sempre più diffusi in tutti i paesi europei.
The Forward March of Labour Halted?
Mario Ricciardi sostiene invece che il declino della sinistra cominci in realtà ben prima della trasformazione ideologica della new left: nel 1981 Hobsbawm pubblicò un articolo sul Labour intitolato The Forward March of Labour Halted? in cui sosteneva che il movimento operaio tradizionale avesse gradualmente perso la sua forza e rilevanza nel mondo moderno a causa dei cambiamenti economici, tecnologici e sociali, come l’emergere di una nuova economia globale basata sulla flessibilità, la deregolamentazione e la mobilità del lavoro: tendenze che avevano indebolito la posizione dei lavoratori organizzati e reso più difficile per i sindacati proteggere i loro interessi.
Ben prima dunque di un’esigenza di tipo teorico, i partiti socialdemocratici occidentali dovettero confrontarsi con dei rapporti di forza mutati; il rapporto tra capitale e lavoro era cambiato a sfavore del lavoro, e un capitale più forte era naturalmente anche in grado di fornire benefici e garanzie che effettivamente allettavano lavoratori e sindacati.
Ma se da un lato questo timido avanzamento salariale garantì alla classe lavoratrice occidentale una fase di relativo benessere, esso fu pagato al prezzo di un lento ma graduale smantellamento delle organizzazioni sindacali e del progressivo smarrimento della loro funzione storica.
A questo proposito Spartaco Puttini e Marc Lazar hanno ricordato come, se da un lato è effettivamente vero che fu nei decenni ‘70 e ‘80 che la globalizzazione modificò i rapporti di forza, la composizione sociale del lavoro e dunque la socialdemocrazia stessa, non bisogna tuttavia dimenticare che fu precisamente nel 1989 che il processo appena descritto accelerò la sua parabola: fino a quel momento l’esistenza dell’Unione Sovietica garantiva se non altro la possibilità di immaginare un mondo alternativo a quello dell’occidente liberale.
La vittoria del mondo libero
Eppure nel 1989 avvenne un fatto abbastanza controintuitivo: nel momento in cui crollava l’Unione Sovietica la reazione delle socialdemocrazie fu quella di inserirsi pienamente nella rivendicazione di quell’evento come la vittoria del mondo libero (secondo una celebre definizione di Churchill), di cui loro facevano orgogliosamente parte, contro il mondo “non-libero” del patto di Varsavia.
Anche per garantirsi un futuro nell’Europa ormai sgombra dalla presenza dell’URSS e sancire la propria verginità politica rispetto ai regimi comunisti, i partiti socialdemocratici si affrettarono più degli altri a rinnegare l’esperienza sovietica.
Continua a leggere l’articolo di Marc Lazar
Università Luiss Guido Carli
Ma fecero i conti male, ha sostenuto Lazar: all’Unione Sovietica si associava l’idea di uguaglianza, e dunque con il crollo del blocco orientale fu la stessa idea di uguaglianza a essere ferita a morte; e poiché a loro modo anche i partiti socialdemocratici si richiamavano ancora all’idea di uguaglianza, in realtà anche loro ne furono irreparabilmente colpiti. Luciano Fasano a questo proposito ricorda come “a un certo punto a noi militanti sembrò che la Terza Via potesse essere una strada giusta, percorribile. Ma liberandoci dell’Unione Sovietica, liberandoci del comunismo, abbiamo anche rinunciato a porci in una dimensione collettiva. Adesso rimane solo quella individuale”.
Anche Spartaco Puttini si collega al caso italiano:
a differenza degli altri partiti coevi, dove la transizione all’idea che neoliberismo fosse un orizzonte del tutto ineludibile avvenne più lentamente e con maggiore dibattito interno, in Italia si assistette a una vera e propria cesura radicale e quasi improvvisa, che egli ha definito “un cataclisma politico”.
Gli ospiti concordano dunque nel rilevare come la fine dell’Unione Sovietica, a prescindere dal bilancio che se ne può trarre, abbia costituito una tappa decisiva nella storia del mutamento delle socialdemocrazie in direzione della Terza Via; ciò è particolarmente evidente nel caso italiano, visto che il PCI – nonostante l’eurocomunismo di Berlinguer e il suo precedente tentativo di allontanarsi da Mosca – aveva fino a quel momento mantenuto simbologie e slogan che solo dopo il 1989 decise di abbandonare.
Connubio tra socialdemocrazie e Terza Via
Eppure, come nota Moschonas, il connubio tra socialdemocrazie e Terza Via ha modificato non solo la socialdemocrazia, ma il liberalismo stesso, che diventava – momentaneamente – più attento alle questioni sociali e alla redistribuzione: di nuovo, gli ospiti concordano sul fatto che una sintesi tra i due mondi, a un certo punto della storia europea, sia effettivamente esistita, e che in quel momento la modernizzazione coincideva con la giustizia sociale. Oggi invece, continua Moschonas, questa relazione si è spezzata, e la riflessione su di essa dovrebbe essere la priorità assoluta di ogni partito socialdemocratico: quale dei due termini, fra modernizzazione e giustizia sociale, è necessario privilegiare? Ed è davvero necessario che i due concetti siano reciprocamente escludenti?
Giunti alla conclusione dell’incontro, le riflessioni degli ospiti si sono concentrate su aspetti specifici dell’esperienza della Terza Via. Mario Ricciardi ha rilevato la necessità di tracciare una periodizzazione della Terza Via mentre, riducendo il raggio di analisi, Massimiliano Boni, Leonardo Casalino e Spartaco Puttini hanno posto l’accento sul panorama italiano.
Donati nota come le privatizzazioni, cavallo di battaglia della nuova visione del mondo legata alla Terza Via, nacquero ben prima del blairismo e della sua teorizzazione: già nel 1981, con il ministro Delors in Francia, si fece strada l’idea che non era possibile, in una cornice monetarista, fare delle politiche keynesiane in un solo stato.
Modello “eurokeynesiano”
Fu anche quello un trauma collettivo per tutte le sinistre europee, a cui proprio Delors tentò di reagire con il modello “eurokeynesiano”. Il 1997 fu da questo punto di vista una una critical juncture: in quell’anno ci furono dodici governi di centro-sinistra in Europa, ma ormai il paradigma blairiano era passato. Se quei governi non presero misure sulla scia dell’eurosocialismo non fu per difficoltà politiche, bensì perchè esse avevano ormai un’altra visione del mondo: il primato del mercato, l’idea che le persone “dovessero farcela da sole”.
Cosa rimane oggi della Terza Via?
A questo punto Marc Lazar si è chiesto cosa rimane oggi della Terza Via. Come precedentemente rilevato, la sinistra radicale ne ha tracciato un bilancio negativo e molto critico: ma se le cose stanno così, come mai questa sinistra radicale non ne ha approfittato in termini elettorali? E come si pongono ora i partiti socialdemocratici rispetto alla Terza Via, in questa particolare fase storica che vede lo Stato (per via della pandemia e della guerra in Ucraina) tornare alla ribalta in Europa?
Una riflessione di Lorenzo Costaguta ha introdotto un aspetto della questione forse ancora troppo poco indagato: nel mondo statunitense (ma ciò è riscontrabile anche in Europa) accade che i pilastri delle politiche di sinistra (welfare, sanità pubblica, istruzione) siano considerati dai cittadini elementi fondamentali di una società; e non appena gli si chiede – i sondaggi lo dimostrano – se questi pilastri siano desiderabili, la risposta è sempre fortemente positiva. Ma non appena queste proposte vengono sintetizzate in un partito, ad esempio nel partito democratico, ecco che subentra una certa diffidenza verso quel partito.
In questa situazione paradossale, nonostante sia sotto gli occhi di tutti che ci vorrebbe più Stato, più welfare, più intervento pubblico, le sinistre non vogliono intestarsi una simile battaglia. Piuttosto, quello che succede in USA (così come in Europa) è che le sinistre si lanciano ormai quasi esclusivamente in battaglie culturali e civili, mentre si ritirano dal dibattito economico a causa del fatto che temono di intestarsi battaglie politiche per il rafforzamento dello Stato: l’idea di puntare sui vecchi cavalli di battaglia sembra oggi una strategia elettoralmente troppo rischiosa.
Il workshop, che ha indagato storicamente il rapporto fra socialdemocrazie e Terza Via, si chiude con un interrogativo politico orientato al futuro: come ricucire il rapporto fra sinistra e classe? La Terza Via, che pure diede i suoi frutti in termini di consenso, è ancora una strada percorribile? La questione rimane per il momento necessariamente aperta, e una riflessione sul ruolo e sulla rilevanza della Terza Via nel contesto politico europe appare estremamente utile a ripensare nuove strategie sul modo in cui i partiti possono ricucire il rapporto con la classe e affrontare le sfide del presente.
Leggi gli approfondimenti
La Terza via: fine della tradizione socialdemocratica?
Leggi l’articolo
di Jacopo Perazzoli