Articoli e inchieste

Vajont 9 ottobre 1963: storia di una memoria comune


Tempo di lettura: minuti

In Italia la montagna è un simbolo più che una storia. 


Lo è ancora oggi. Lo è nelle storie dell’emigrazione italiana (come anni fa ha raccontato Sandro Rinauro), ma soprattutto lo è in relazione ai grandi traumi collettivi ambientali. Quando si dice trauma ambientale e montagna il link automatico è la vicenda del Vajont. 

Vicenda per molto tempo non evocata, dismessa, taciuta, per poi esplodere improvvisamente. 

Ci tornerò tra poco. 

Prima però conviene fare un breve passaggio. 

La ricerca sulla montagna che Marco Armiero ha proposto all’attenzione pubblica negli ultimi e dieci anni – prima con Le montagne della patria e ora con La tragedia del Vajont –  è importante anche per questo, perché copre una lacuna. La montagna è un elemento essenziale del nostro Paese occupando il 35 per cento del territorio a cui si somma il 42 della collina, ma non ha mai sollecitato l’attenzione degli storici. Eppure, è un tema storico e culturale di grande rilievo. 

A cominciare dai momenti di svolta nella storia sociale del nostro paese. 

Qui è centrale la questione Vajont sia per la storia di ciò che precede quel 9 ottobre 1963 (ovvero sessanta anni fa) sia anche, ciò che segue a quella data, non solo nella vicenda giudiziaria, ma nella costruzione del nostro linguaggio comune.

Il Vajont di Paolini

Nel 1994, quando Marco Paolini ha portato sui palcoscenici italiani Vajont 9 ottobre 1963, il monologo sulla storia del disastro del Vajont, quello che voleva raccontare non era solo come fossero scomparse in un attimo 2000 persone travolte da una massa enorme d’acqua, ma come noi trent’anni dopo ce ne fossimo completamente dimenticati e come quella tragedia stesse profondamente nella storia italiana. 

Si potrebbe osservare come lo scopo non fosse solo raccontare ma anche segnare una volta e raccontare un modo diverso di costruire storia pubblica. 

Vajont 9 ottobre ’63 non è solo, né forse prevalentemente, un monologo teatrale, ma proprio in virtù di quell’oblio, e della trasformazione del manuale di storia, assumeva la funzione di un testo di storia totale.

Quel testo è forse il più bel libro di storia economica, sociale, culturale di come l’Italia ha rincorso senza regole il processo d’industrializzazione. È solo grazie a Marco Paolini che qualcuno ha ripreso in mano gli scritti di Tina Merlin, una che non la voleva ascoltare nessuno e che inutilmente per anni si batté per fermare una catastrofe annunciata.

Ma anche dopo, per trenta anni, nessuno di lei aveva voluto parlare. Semplicemente perché parlare di lei, voleva dire parlare di noi senza possibilità di scusanti (anche per questo Marco Armerio giustamente a lei dedica La tragedia del Vajont). 

La diga del Vajont nel 2013

Vajont 9 ottobre ’63  è un testo di storia che non è un libro di storia. Parla a una generazione che ha bisogno di “sentire” il fatto. “Sentire” non è equivalente a “mentire”, o a “falsare”. Vuol dire “prendere la misura” delle cose. Per prenderle davvero, l’opinione pubblica italiana ha impiegato altri 30 anni fino alla vigilia di questo nostro oggi. 

Non so se sessanta anni siano un tempo per prendere consapevolezza di un evento, o se siamo già fuori tempo massimo. 

Forse sì se consideriamo quella storia ancora solo come un’«offesa» (in prima istanza agli uomini e alle donne di quel tempo e di quel luogo; in seconda istanza  a tutti, quelli di allora e noi qui che ancora dobbiamo prendere la misura di quel disastro ambientale e umano). 

Ma forse, proprio per le sfide ambientali e di rapporto tra ambiente, insediamento, e vita (meglio di qualità della vita) di uomini e donne in un luogo, quella sfida torna ad essere centrale e interessante per noi oggi, qui e ora. 

Una sfida da raccogliere

Che il Vajont, sia stato un momento di svolta nella storia nazionale lo abbiamo appreso non in tempo reale, ma solo misurando la freddezza o le vicende anche giudiziarie che seguirono a quel disastro – assunto e raccontato come un evento imprevedibile o come una costruzione falsa e ideologica di un’opposizione politica che voleva “sfruttare” i morti per segnare un punto a proprio favore contro la necessaria unità nazionale che andava sostenuta nel momento del dolore. 

Per questo non vale solo né la ricostruzione storica del lungo oblio, né le parole che immediatamente segnano lo spazio pubblico, formano il vocabolario con cui si esprimono sentimenti, spesso li suggeriscono “occultamente”. In questo la ricca antologia di Paolo di Stefano e Riccardo Iacona, Mai più Vajont non va letta solo come la raccolta di voci d’epoca.  

Quel libro, consente di registrare quanto la voglia di saperne di più, spesso evocata, non sia una pratica praticata da poche persone, da voci che devono lottare per acquisire autorevolezza.  

Perché in quelle parole, nel caricarsi di responsabilità, oppure nel preoccuparsi solo delle buone maniere, o nell’accusare di essere al servizio del nemico chi chiede di mettere sotto inchiesta i responsabili, sta un vecchio e consolidato modello culturale dal cui cono d’ombra non siamo mai usciti.  

Anzi continuiamo ad esser fedeli in questo nostro tempo presente. 

La Fondazione ti consiglia

Restiamo in contatto