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Unite nella lotta: la scelta delle lavoratrici de La Perla di Bologna

«Dall’inizio della cassa integrazione, ci siamo trovate costrette nel ruolo di cura e null’altro: è stato un annientamento della persona. In questa associazione ritroviamo anche noi stesse, e non siamo sole».


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Uniche e Unite

Macchine che cuciono, persone che parlano, tagli di stoffa, risate. «Lotto per avere e dare un futuro». Quando si entra nella sede dell’associazione UnicheUnite, nonostante la temperatura invernale, si sente un clima caldo e familiare. Dentro ci sono una decina di donne che si muovono in sintonia mentre lavorano la stoffa, ricamano, tagliano, impacchettano, lavorano al computer, in una piccola catena di montaggio. Sono tutte lavoratrici de La Perla, brand storico di moda creato a Bologna nel 1954 da una sarta, Ada Masotti. E sono tutte in cassa integrazione, in attesa da mesi di capire il loro futuro e quello dell’azienda.

Non sono più quelle del famoso brand di biancheria intima noto a livello nazionale e internazionale, ma quelle di un’associazione che lotta per avere riconosciuti i propri diritti. Nel 2018, infatti, dopo che il brand era già stato venduto dal figlio della fondatrice, il marchio venne acquistato dal fondo anglo-olandese Tennor, di proprietà dell’investitore tedesco Lars Windhorst. Dal dicembre 2023, le lavoratrici sono in cassa integrazione.

Il lusso di resistere

Già dall’ottobre del 2023, alcune lavoratrici non hanno potuto aspettare: hanno dovuto dimettersi per avere almeno la disoccupazione, altre hanno trovato un altro lavoro. Altre ancora hanno scelto di restare e lottare.

Alcune di queste sono quelle che tutti i giorni riempiono la sede dell’associazione UnicheUnite, nata qualche mese fa per sostenere le mobilitazioni delle lavoratrici e che oggi ha uno spazio a Ozzano, in provincia di Bologna. È qua che, insieme alle magliette, alle borse e alle collane che producono le 24 donne che si sono unite nell’associazione, troviamo slogan, manifesti e fotografie.

«Alcune di noi avendo i genitori anziani si sono dedicate maggiormente alla cura del genitore o della persona anziana», racconta Valentina Vermicelli, che è entrata in azienda quando aveva 19 anni e ci è rimasta per 34 anni. Ora parla mentre prova a usare al meglio una macchina da cucire, che aveva usato raramente fino a qualche mese fa. «Dall’inizio della cassa integrazione, ci siamo trovate costrette nel ruolo di cura e null’altro: è stato un annientamento della persona. In questa associazione ritroviamo anche noi stesse, e non siamo sole».

Una delle fotografie che si vedono nella sede dell’associazione, rappresenta una delle lavoratrici de La Perla con al collo delle forbici e sulla testa un tessuto bianco, una delle foto della mostra che inaugurerà a Bologna tra pochi giorni e il cui sottotitolo è “Il lusso di resistere”.

«Io mi sento fortunata perché ho un marito e dei figli che supportano la scelta, una scelta che però è un lusso. Abbiamo tante colleghe che sono da sole, hanno dei figli, un solo reddito, quindi capisci che un’alternativa la devi trovare». Mascia Rebeggiani è da trentasei anni in azienda, e il motivo per cui ha scelto di rimanere è chiaro: «La lotta è per noi ma è anche per tutte, e non solo per noi de La Perla. È una lotta a 360 gradi per tutti i lavoratori che si trovano nelle nostre condizioni o anche peggio. Noi bene o male siamo tutelate, abbiamo dei sindacati, abbiamo una cassa integrazione, ma sappiamo bene che anche in Italia ci sono realtà di persone sottopagate, sfruttate, che lavorano 20 ore al giorno», afferma Stefania Prestopino.

La cultura della protesta

Le lavoratrici presenti nel piccolo spazio oggi pieno di macchine da cucire e stoffe, non si conoscevano tutte quando lavoravano a La Perla. Si salutavano, ma non sempre conoscendo i propri nomi, si scambiavano due parole ma spesso non lavoravano insieme, a differenza di ora. «Abbiamo scoperto che, al di là di tutto, puoi darti semplicemente la mano, anche se siamo tutte molto diverse. In azienda ci tenevano molto a mantenere le impiegate al terzo piano, le operaie al piano di sotto, mondi in parte separati, e ognuna doveva guardare al proprio lavoro, a testa bassa», dice Patrizia Bondanelli. «Invece qui abbiamo riscoperto che l’unione fa veramente tanto. Siamo riuscite a creare tutto questo grazie alle varie competenze che abbiamo acquisito e che ci siamo anche passate».

Un mondo che si intreccia con scelte precise: dopo aver utilizzato, in una fase iniziale, magliette a basso costo, UnicheUnite ha iniziato a collaborare con altraQualità, cooperativa di commercio equo e solidale, con magliette in cotone bio da aziende che rispettano i diritti dei lavoratori e pagano compensi giusti.

È su queste maglie che ora si vede il simbolo dell’associazione: delle sagome di donne, ritagliate da scarti di pizzo, che si tengono per mano formando un cuore. Un simbolo che è nato durante le prime mobilitazioni, nei manifesti portati nelle strade e nelle piazze, fuori dai Tribunali, nei banchetti. «Questa maglietta – spiega Stefania Prestopino – la consideriamo il manifesto della nostra lotta. Queste donne che si tengono per mano sono un simbolo forte di unione per reagire: se non avessimo reagito unite a quest’ora non saremmo neanche qui a parlare, perché l’azienda sarebbe già stata probabilmente smantellata».

Una cultura della protesta che a La Perla è nata anni fa, con le prime mobilitazioni fuori dall’azienda, fatte con bidoni di vernice su cui suonare, clacson di macchine che passano e che si uniscono alla protesta, canzoni. «La cultura della protesta si è evoluta con noi, nessuno ce l’ha insegnato. Pensate che già cinque anni fa alcuni reparti dell’azienda molto creativi hanno cominciato a creare delle canzoni per protestare, proprio come facevano le mondine».

«Ai tempi d’oro della Perla eravamo circa 1500 lavoratrici, adesso non arriviamo a 220. A forza di ristrutturare siamo già state ridotte all’osso, ma è anche per questo che abbiamo sempre avuto una forte presenza sindacale all’interno dell’azienda. Quando il fondo ci ha acquisito e ha iniziato con questa strategia di austerity totale, abbiamo subito iniziato a mobilitarci», racconta Stefania Prestopino.

Oggi l’azienda è in amministrazione straordinaria, con ammortizzatori sociali previsti per alcune lavoratrici ancora per qualche mese, per altre, invece, sono finiti: per oltre una quarantina di addette la cassa integrazione per cessazione è scaduta il 25 gennaio scorso, aprendo così a un nuovo periodo senza stipendio, in attesa di capire chi acquisirà la società. «Quello che è successo e sta succedendo alla nostra azienda è un modello che vediamo ripetersi un sacco di volte: arriva il fondo straniero, acquista, spolpa dall’interno e dopo rivende il marchio per produrre poi in Paesi dove il lavoro costa meno», afferma Prestopino.

Lavoro, futuro e dignità

Un tema, quello delle dimissioni forzate e del part-time involontario, che riguarda soprattutto le donne. Come emerge nel report del Forum Disuguaglianze Diversità, le lavoratrici risultano essere maggiormente coinvolte e colpite da questo fenomeno: in oltre il 60% delle imprese i dipendenti part-time sono quasi esclusivamente o esclusivamente donne. Un aspetto che è strettamente connesso, come raccontano le parole delle lavoratrici de La Perla, con forme di lavoro precarie e più fragili e su cui difficilmente, da sole, si può fare qualcosa.

Lo ricorda uno dei tanti cartelli su cui sono stampate le frasi delle lavoratrici che si sono mobilitate in questi mesi e anni e che continuano ad essere utilizzati durante le manifestazioni, i cortei e i picchetti: «Lotto perché il lavoro dà dignità. Lotto per avere e dare un futuro».

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