Il 28 febbraio 1972, durante un banchetto in suo onore a Pechino, Nixon invitò il Primo Ministro Zhou Enlai a un brindisi che celebrò pomposamente: “Volge al termine la settimana che ha cambiato il mondo”. La malizia del Presidente lo conduceva spesso a un uso disinvolto della verità, ma quella volta anticipò una conclusione oggi largamente accettata. Quel meeting si classifica come uno dei più importanti del secolo scorso, probabilmente il più foriero di conseguenze. Fino al suo annuncio, nell’estate dell’anno precedente, l’evento era semplicemente inimmaginabile. Non esisteva alcun punto di contatto tra Washington e Pechino, l’ostilità modellava ogni argomento, amplificata da una propaganda martellante.
I due eserciti avevano combattuto su fronti opposti in Corea, gli Stati Uniti proteggevano Taiwan dalla riconquista cinese, armavano i governi del sud-est asiatico contro le guerriglie comuniste, mantenevano decine di migliaia di militari in Corea del Sud e in Giappone, le loro portaerei solcavano indisturbate il Pacifico Occidentale. All’apice della Guerra fredda – la cui temperatura saliva parecchio in Oriente – il dialogo politico rimaneva impotente di fronte al linguaggio delle armi. Come poteva un Presidente statunitense, che aveva costruito carriera ed elezione su uno spietato anticomunismo, aprire un dialogo con un paese fino ad allora additato come il nemico assoluto, del quale non si riconosceva neanche la rappresentanza politica? Nixon convinse i suoi cittadini che soltanto lui poteva farlo, le sue credenziali erano inappuntabili, la sua fede repubblicana di destra una garanzia.
Il viaggio era stato preparato in segreto da Kissinger – allora assistente di Nixon per la sicurezza e non ancora Segretario di Stato – e da Zhou. Il primo segnale si scorse nella trasferta in Cina di una squadra di ping-pong. Nessun americano vi aveva messo piede dalla fondazione della Repubblica Popolare nel 1949. Gli Stati Uniti riconoscevano Taiwan come unico e legittimo rappresentante di tutta la nazione e mantenevano la loro ambasciata a Taipei.
Incredibilmente, Taiwan ha detenuto fino al 1971 il seggio della Cina all’Onu e il conseguente diritto di veto come membro permanente del Consiglio di sicurezza. Poi il Pakistan si offrì come intermediario per un incontro a Karachi; le trattative per l’agenda, il protocollo e le dichiarazioni finali furono lunghe, cesellate fino ai dettagli. Poi la delegazione partì con l’Air Force One e un aereo per i giornalisti. Il viaggio si snodò lungo l’Oceano per tre giorni, con soste alle Hawaii e a Guam, prima dell’atterraggio a Shanghai.
Tra le molte aspettative, per Nixon due obiettivi emergevano nettamente. Il primo era intriso di strategia: dividere Pechino da Mosca, approfondire le divisioni del blocco socialista e in ultima analisi indebolirlo. Nelle parole più raffinate di Kissinger voleva dire avviare un mondo multipolare. Urss e Cina avevano combattuto una guerra di frontiera nel 1969, lungo il fiume Ussuri. Con la lente dell’appartenenza politica il conflitto appariva inspiegabile, ma la Cina si presentava troppo grande, ricca di storia e forte di dimensioni per obbedire silenziosamente all’Unione Sovietica.
L’unicità del suo esperimento sociale la rendeva inassimilabile all’esperienza moscovita. I contrasti sulla destalinizzazione davano una veste ideologica a contrasti irrisolvibili; semplicemente Pechino non voleva essere ricondotta al Cremlino. Se le fosse stata offerta una sponda, l’incrinatura con Mosca sarebbe diventata una voragine non più assorbibile. L’unità delle due capitali comuniste, cementata in Corea e in Vietnam, sarebbe stata compromessa per sempre.
Il secondo obiettivo derivava dal primo. Per Nixon il conflitto in Indocina è ormai senza speranza di vittoria. Tuttavia, si può perdere la guerra ma non la faccia. Bisogna convincere Hanoi a sedersi al tavolo delle trattative, ad abbassare le sue richieste, a concedere agli USA l’onore delle armi. Va lasciato a Kissinger il palcoscenico della sua ultima astuzia: scaricare tonnellate di bombe sul Vietnam, dichiarare vittoria e fuggire senza gloria dall’Indocina. Entrambi gli obiettivi, seppure con tempi diversi e più lunghi, vengono raggiunti. La conclusione del percorso ne suggella l’ambizione. Tra il 1989 e il 1991 crolla l’impero sovietico e gli Stati Uniti rimangono la sola superpotenza, il sistema politico che esprime viene preso a modello, il liberismo trionfa, la storia sembra addirittura finita. La Cina continua a rimanere lontana, misteriosa, in via di sviluppo.
Eppure, il viaggio di Nixon ha avuto conseguenti ancor più importanti all’interno della Grande Muraglia. Il suo impatto, meno eclatante mediaticamente, si è rivelato indubbiamente epocale. Seppur confusamente e con un percorso non lineare, allora sono state gettati i semi della Cina del 21° secolo. Nel 1972 il paese registrava una situazione caotica, così radicalizzata da rasentare la guerra civile. Dopo la ricostruzione, si fronteggiavano le diverse visioni del Partito comunista cinese, dove soltanto l’autorità indiscussa di Mao teneva formalmente unita la dirigenza.
Contro la vecchia guardia – accusata di essersi allontanata dalle masse, di seguire una linea revisionista, di voler restaurare il capitalismo – il Grande Timoniere aveva lanciato la Rivoluzione Culturale, incaricando le giovani Guardie Rosse di “bombardare il quartier generale” dello stesso partito del quale era il leader. Oggi le parole d’ordine lanciate nelle piazze possono far sorridere per velleitarismo e ingenuità, ma allora tutta la Cina era attraversata da una battaglia politica basata sull’esegesi del pensiero di Mao, in un clima da fanatismo ideologico e di punizione per gli sconfitti. L’uguaglianza continuava a brillare come l’unica stella polare, anche a dispetto della creazione di ricchezza.
La lotta di partito applicava i metodi del tradimento e della delazione. I leader prima osannati venivano arrestati improvvisamente; addirittura Lin Biao, erede designato di Mao, morì in un misterioso incidente aereo mentre fuggiva dopo aver fallito un colpo di stato per usurpare il potere del Presidente. Il Ministro della Difesa, eroe di guerra, teorico terzomondista, nemico implacabile degli Stati Uniti, esce di scena repentinamente e violentemente. Con lui, la parte più radicale della Rivoluzione culturale perde l’esponente più prestigioso.
Emerge lentamente nel partito l’ala più pragmatica, i veterani riprendono fiato. Il paese non può continuare a vivere nel disordine, il caos lo indebolisce, le frontiere sono minacciate, la guerra va scongiurata. L’offerta può essere accolta: gli Stati Uniti non sono un alleato, ma un’interlocuzione va avviata. Nel 1973, dopo anni di detenzione, viene liberato Deng Xiaoping. Il suo partito, in mano all’ala sinistra, non gli aveva mai perdonato di aver detto che il pragmatismo deve prevalere, che il colore del gatto – bianco o nero – è indifferente rispetto al risultato.
Tre anni dopo, alla morte di Mao, gli apparati di sicurezza prevengono lo scontro finale, chiudono la Rivoluzione culturale e arrestano i suoi epigoni della Banda dei Quattro. Il loro estremismo non era soltanto una malattia infantile del comunismo; aveva lasciato un paese senza direzione, arretrato, debole, con alleati marginali, in preda a una mobilitazione permanente che non poteva permettersi.
Soltanto nel 1979 Washington e Pechino si scambiano gli ambasciatori. Prima timidamente, poi con costanza, l’avvicinamento diventa stabile e redditizio. Ha luogo un bizzarro matrimonio di interessi tra i governi e le multinazionali che convergono sulla delocalizzazione produttiva e la Cina che – avendo adottato peculiari logiche capitaliste pur mantenendo il monopartitismo – aveva bisogno di una rapida industrializzazione. Le aziende straniere, in primis americane, garantivano capitali e tecnologia; Pechino offriva manodopera inesauribile e disciplinata, bassi costi di produzione, la promessa di un mercato sterminato.
La strada era aperta per la moderna globalizzazione, dove – in assenza di inimicizie ideologiche – sarebbe stata totale la libertà di trasferire capitali e merci. Sembrava una win-win situation, con profitti per Washington e rafforzamento per Pechino. Tutto questo non sarebbe stato possibile, almeno con le sue velocità e dimensioni, senza quella visita storica. Poi le contraddizioni sono emerse e la speranza – ingenua in verità – di convertire la Cina in una democrazia si è dimostrata vana. I suoi straordinari successi economici non hanno condotto alla riforma del sistema politico, ma l’hanno resa potente, orgogliosa, certamente non remissiva.
Ora i due paesi registrano animosità crescenti, inclinate su una rotta di collisione. Le convenienze, così fertili per entrambi, si stanno diluendo, a favore di schieramenti contrapposti che sembravano superati. I vantaggi della collaborazione sono stati enormi; che 50 anni dopo potessero sfociare in un contrasto pericoloso, neanche la lungimiranza di Nixon e di Mao potevano prevederlo.