Una nuova tipologia di leader
«In un primo momento è sembrato che Parri fosse lui il contrario di Mussolini; ma Parri lo era per via di opposizioni fin troppo bilanciate: per esempio Mussolini era il tiranno e Parri l’eroe della libertà, quello il capo degli squadristi e Parri il capo dei partigiani, quello atteggiato a statua romana e Parri atteggiato a statua dell’800. Invece De Gasperi è il contrario di Mussolini in un modo meno palese, ma più radicale, al punto che non si può fare alcun confronto fra l’uno e l’altro. De Gasperi non è un eroe, non è un capo, non somiglia a nessuna statua […]. È un uomo perfettamente grigio, intonato alle mille cose che non danno nell’occhio e di cui il mondo è principalmente composto».
Da acuto analista dell’Italia del secondo dopoguerra, nel contrapporre alla vecchia politica («eroica») una nuova tipologia di leader riassunta nella figura dell’allora presidente del Consiglio democristiano, Vitaliano Brancati non sapeva di anticipare (nel 1947) quello che sarebbe stato uno dei tratti più caratteristici del primo cinquantennio di storia repubblicana. Da allora, per almeno due generazioni, i maggiori uomini politici italiani si sarebbero infatti attenuti tutti o quasi a un medesimo canone comunicativo: dimesso, senza istrionismi, a seconda dei casi professorale o avvocatesco, ma comunque quanto più lontano possibile dal vitalismo oratorio dannunziano e mussoliniano. All’insegna della sobrietà, come massima incarnazione degli ideali della democrazia: con le sue cerimonie volutamente modeste e il suo sospetto verso qualsiasi forma di leadership carismatica.
Processo al Parlamento
Non stupisce che proprio questo sia stato uno degli aspetti della giovane repubblica italiana più invisi ai movimenti neofascisti del dopoguerra. Se i padri costituenti, vaccinati dall’esperienza del Ventennio, avevano cercato di raffreddare il rapporto tra elettori e politici non solo promuovendo un diverso stile di comunicazione ma anche attraverso un preciso sistema di regole, pensate per prevenire l’ascesa di un nuovo «uomo solo al comando», proprio le complesse procedure della democrazia sono state, da subito, uni dei bersagli preferiti della destra più intransigente. In particolare, gli strali si sono concentrati contro il sistema partiti, visti come un ostacolo all’espressione della “vera” (cioè spontanea) volontà popolare e non come un insostituibile strumento di partecipazione politica (per agire collettivamente nella società, per elaborare nuove idee, per formare i militanti, per selezionare il gruppo dirigente).
La requisitoria pronunciata da Giorgio Almirante nei due volumi di Processo al parlamento (1961), una vera e propria summa del pensiero antidemocratico del dopoguerra, riconduce così tutti i mali del paese a un’unica colpa: la partitocrazia, che per Almirante non è una degenerazione del sistema ma il suo elemento fondante. «Non è il parlamento che elegge il capo dello stato; ma sono i partiti. Non è il parlamento che conferisce e toglie la fiducia al governo; sono i partiti. Non è il parlamento che svolge l’attività legislativa e quella ispettiva o di controllo; sono i partiti. A sua volta, il governo si compone della somma delle delegazioni dei partiti che accettano di farne parte». Da cui la conclusione, nettissima e senza possibilità di compromesso: «A nostro avviso, non si tratta di far funzionare meglio questo parlamento, ma di sostituirlo con un diverso sistema di rappresentanza politica».
Non più abbattere, ma correggere la democrazia
Oggi nessuno si esprime più in questi termini. Da trent’anni (vale a dire da quando, grazie a Silvio Berlusconi, è diventata forza di governo) la destra postfascista non si propone infatti più di abbattere la democrazia ma semmai di correggerla mediante l’iniezione di una dose massiccia di elezioni dirette che, in un modo o nell’altro, avvicinino l’esecutore ai cittadini che gli hanno concesso la propria fiducia. L’imperativo è insomma ridurre e possibilmente abolire le mediazioni: in nome di una maggiore trasparenza del processo, ma soprattutto di una accresciuta stabilità e – parola magica! – governabilità. Almeno apparentemente, una conversione dal neofascismo di Almirante al gaullismo di Randolfo Pacciardi e Edgardo Sogno.
Con la destra postfascista il mito angloamericano della governability c’entra però solo in parte. Presidenzialismo o premierato forte non mirano infatti soltanto ad affidare il paese a un «sindaco d’Italia», più libero di fare perché finalmente affrancato da «lacci e lacciuoli» (come disse l’«uomo del fare» per eccellenza, Silvio Berlusconi, mentre «sindaco d’Italia» è espressione risalente alla fallita commissione bicamerale di Massimo D’Alema). In continuità con una tradizione che affonda le sue radici nel regime mussoliniano, all’elezione attraverso meccanismi plebiscitari viene infatti assegnata qui un compito più importante ancora: rilegittimare quella relazione “fusionale” tra governanti e governati così cara alla tradizione fascista, e che proprio per questo i padri costituenti avevano cercato di bandire una volta per tutte dall’arena politica. Si tratta insomma di niente di meno che di ripensare le regole del consenso.
Quando il processo decisionale ricade su uno solo
Uno degli aspetti più singolari, ma anche più dimenticati, del fascismo è la rivendicazione mussoliniana di aver realizzato una forma di democrazia più ricca di quella sbandierata dai propri avversari, sedicenti democratici (Perugia, 5 ottobre 1526: «Se mai vi fu nella storia un regime di democrazia, cioè uno stato di popolo, è il nostro»). Una democrazia – per riprendere le parole del maggiore teorico politico del regime, il gentiliano Rodolfo De Mattei – finalmente non più attaccata a una «meccanica divisione dei poteri» e a un «meccanico mito pitagorico», vale a dire al principio meramente matematico secondo cui a una testa corrisponde un voto ed è contando i voti che si stabilisce chi dovrà governare (aprile 1937). La paradossale democrazia totalitaria del Duce.
Nel linguaggio del tempo (di schietta origine romantica) l’opposto di «meccanico» è «organico». E appunto «organico» può essere definito il legame indissolubile tra capo e folla esaltato nella tradizione fascista e, oggi, post-fascista: una sorta di muto riconoscimento, basato su una adesione pre-razionale, che, proprio in virtù della propria immediatezza e inscalfibilità, diffida dei formalismi giuridici e non ha bisogno di ulteriori certificazioni. Qualcosa di molto diverso dal mito dell’efficienza, tanto nella sua versione neoliberale, quanto in quella manageriale (stile Berlusconi), ma non incompatibile con esso, perché, se il carisma del capo risplende meglio quando il processo decisionale ricade su uno solo, è vero anche che proprio nel primato di un capo carismatico risiede la migliore premessa di un governo duraturo e fattivo. Per la destra neo e post-fascista il primo elemento sembra però addirittura più importante: persino la famosa governability non è insomma in questo caso che un mezzo a un fine.
Rappresentanza o identificazione
In termini di legami politici, la democrazia moderna si fonda sulla rappresentanza: vale a dire sulla libera scelta di un elettore che delega la propria voce a qualcun altro ma è sempre pronto a sciogliere il vincolo con il proprio rappresentante, qualora questi lo deluda o lui cambi idea. A tali condizioni, scetticismo e attitudine critica fanno anzi necessariamente parte persino delle adesioni più convinte, secondo un principio che vale anche nella direzione opposta (la democrazia moderna rifiuta il mandato imperativo). All’altro polo, troviamo invece l’identificazione: completa, emotiva, fideistica, ovvero – appunto – «organica», in accordo a un’idea di partecipazione politica minima che la destra neo e post-fascista condivide con il fascismo storico (e con il populismo), e che gli attuali profeti dell’«uomo solo al comando» vorrebbero ispirasse anche la selezione elettorale – con il paradosso che, più è forte l’identificazione, meno necessario diventa vigilare sull’operato di chi governa. Al posto della delega sospettosa della democrazia, qui domina infatti una sorta di comunione mistica, dove il rappresentato si riconosce interamente e senza resti nel suo rappresentante, e dove i ripensamenti non sono benvenuti (al punto di essere assimilabili a un tradimento o a una apostasia religiosa).
Difendere la virtù del dubbio
Mascherata dalla questione dell’efficacia, è questa la vera posta in gioco del presidenzialismo/ premierato. Difendere oggi la democrazia significa allora anzitutto difendere le virtù degli uomini «perfettamente grigi» e del dubbio (il grande, il benefico dubbio) quali antidoti al fascismo storico e a tutte le sue reincarnazioni successive. Come sia possibile riuscirci in un’epoca di politica iper-spettacolarizzata, in cui è lo stesso sistema dei media ad alimentare cesarismi e bonapartismi di cartapesta, è un interrogativo al quale, da oltre quarant’anni, nessun ha ancora trovato una risposta. Il pericolo è sempre lì. Nel frattempo, però, la domanda non ha smesso di farsi sempre più urgente.
© Fotografia di Luca Santese / CESURA