#25aprile2022
Il 25 aprile non è più una data di ieri. Da diversi anni ha la funzione di indicarci le «strade in salita» di domani.
Come fosse un sistema topografico in grado di sostenerci nel tracciato del nostro futuro, il 25 aprile è oggi un avvenimento, una ricorrenza e un sistema di valori frutto delle azioni degli individui che, singolarmente o in gruppo, hanno preso in mano il loro destino conquistando la libertà dal regime fascista anche a sacrificio della propria vita, anche rischiando forme di repressione, come il carcere.
Nei sistemi totalitari il carcere non ha una funzione di redenzione o di «recupero» (da Beccaria in poi non dovrebbe essere questa la funzione del carcere?), ma è volto a segregare.
L’obiettivo non è convincere, far crescere o riabilitare, bensì punire.
Le parole di Pietro Secchia
Anche per questo la storia della vita al confino, e delle opportunità che si presentano tra le pieghe della segregazione è proposta come orgoglio. Ne sono un esempio illuminante le parole di Pietro Secchia, storico militante antifascista ampiamente presente negli archivi della Fondazione Feltrinelli.
Nella ricostruzione di Secchia il carcere non è solo orgoglio per «non aver ceduto», ma è anche la fierezza di aver intrapreso un percorso di apprendimento, di formazione culturale. Nella storia e nella memoria di chi attraversa l’esperienza del confino sta la convinzione di esserne usciti più formati di prima. La convinzione di aver vinto non solo perché si è stati più forti del sistema, ma anche perché – a dispetto dell’isolamento, della riduzione drastica di socialità e di opportunità, in breve di vita – «non si è perso tempo».
Lungi dall’esser una vacanza, il confino e il carcere sono tempo che il detenuto prova a riprendersi rispetto al carceriere che lo sorveglia, in una continua lotta per tornare a essere padroni della cosa che i poteri totalitari temono di più: la libertà di «farsi una propria idea». Autonomia di pensiero che fa tutt’uno con la possibilità di scambiare parole e opinioni. E dunque con la possibilità di tenere viva la connessione con quanto avviene fuori.
Un modo per dire a sé stessi che si è ancora «in partita» o che si può «tornare ad essere della partita».
La resistenza non è stata solo lotta armata
La caparbietà – la non rinuncia a pensare con la propria testa – non implica solo l’attrito con il potere che
reclude, ma anche con l’opinione della maggioranza dei propri compagni con cui ci si confronta anche aspramente, talvolta anche arrivando a pratiche di esclusione, di isolamento, fino alla pratica più dura per chi ha perso la possibilità di muoversi in libertà: il silenzio.
Un’esperienza che nel tempo del confino non fu un caso isolato: si potrebbero ricordare, tra gli altri, le vicende inquiete di Antonio Gramsci, di Umberto Terracini, di Altiero Spinelli, di Amadeo Bordiga, che dal fascismo fu liberato ben prima di Gramsci, perché «segregato», in fondo, vale a dire sottratto allo sguardo del suo «pubblico», lo era già stato ad opera del suo stesso partito.
La Resistenza non è stata solo lotta armata: è stata azione per liberarsi dall’oppressione dalla dittatura e insieme confronto – non senza asprezza – sui modi e sui contenuti che avrebbero potuto dare forma a una nuova convivenza civile.
Il 25 aprile quei percorsi inquieti e plurali si danno appuntamento in pubblico. Alcune istanze nell’immediato dopoguerra prevalsero, altre sapevano che sarebbero rimaste minoranza.
La convinzione comune era tuttavia che quel tempo di Liberazione fosse solo l’inizio di una nuova di idea di società libera: che non vuol dire solo liberarsi dall’oppressore, ma provare a immaginare un architrave di rapporti, valori e visioni.
Un nuovo patto
Non l’antipresente ma un nuovo patto fondato anche su altre parole chiave, su altri e nuovi simboli. Per esempio l’Articolo 3 della Costituzione – quello secondo cui “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” – è un ottimo laboratorio per riprendere quel dibattito che fa della cittadinanza un terreno di confronto oggi ancora vivo, per certi aspetti irrisolto o che chiede continue messe a punto.
Proprio perché cittadinanza è un percorso di abilitazione e non un atto notarile.
Soprattutto perché quel laboratorio è un ottimo viatico per riflettere sui problemi dell’uguaglianza nelle sue varie dimensioni, configurandosi come caposaldo sia nella costruzione della coscienza civile, sia nella lotta a ogni forma di razzismo. Sia, infine, come anticorpo per non cadere nel campo magnetico del nazionalismo, un codice politico che ha l’ideologia della guerra come elemento strutturale per affermare le proprie «ragioni». Non significa rifiutare di prendere le armi per sconfiggere l’oppressore, ma non assumere la guerra come linguaggio supremo per affermare il proprio diritto.
Il 25 aprile alla fine non è nient’altro che questo: l’imprescindibilità di battere le strade della liberazione, il coraggio di vivere la libertà senza sopruso, la consapevolezza che la società aperta è la pratica del confronto, anche duro, sulla punta delle idee.