Cinque anni fa oggi, il 15 marzo 2019, oltre 400 mila persone, in gran parte giovanissime, scendevano in piazza in quasi 200 città italiane. Un’esplosione di partecipazione che per dimensioni e caratteristiche non aveva precedenti, nella storia dell’ambientalismo italiano, e che ha rappresentato un’innovazione fortissima in quella storia.
Prima di tutto, la composizione: secondo i dati raccolti al corteo di Firenze, il 63% dei manifestanti erano under 35 e il 33% under 20; tra i più giovani, il 68% era di genere femminile e il 35% non aveva mai partecipato prima a una manifestazione nella propria vita. L’entrata di una nuova generazione sulla scena della partecipazione politica, come in passato, per i Millennial, era avvenuto con le mobilitazioni contro la guerra in Iraq. Ma l’innovazione era anche di contenuto: per la prima volta da decenni, il movimento ambientalista, anche in Italia, superava in termini di massa le sue due forme più tipiche di espressione, quella di advocacy più o meno formalizzata e quella, più conflittuale, legata a controversie locali sulle cosiddette “grandi opere”, per aprire una vertenza generale sul clima, il modello di sviluppo, la transizione ecologica.
Messaggi personali preparati tutti e tutte insieme
La natura di massa, giovanile e in buona parte disintermediata rispetto alle organizzazioni collettive che caratterizzava Fridays For Future portava con sé, ovviamente, tutte le contraddizioni della nostra epoca. Tra i manifestanti del 15 marzo 2019 a Firenze, l’80% pensava che la via principale per fermare il cambiamento climatico fosse un cambiamento volontario dello stile di vita da parte degli individui. Il segno evidente di un’individualizzazione nella lettura dei fenomeni sociali che riflette gli assiomi del pensiero dominante. Al tempo stesso, però, chi rispondeva in quel modo lo faceva da una piazza, collettiva e popolata come poche altre. Un’individualizzazione che non rifiuta lo spazio pubblico e la partecipazione collettiva, ma che anzi si esprime al suo interno. Un po’ come i cartelli scritti a mano che hanno caratterizzato le piazze di Fridays For Future: messaggi personali, lontani dall’idea dell’unico slogan sullo striscione condiviso in assemblea, ma preparati tutti e tutte insieme, portati nella stessa piazza e caratterizzati, in fondo, da una lettura comune del presente e del futuro.
Costruire questa lettura comune implica, per forza di cose, un processo di politicizzazione. Per il movimento, ha implicato entrare in relazione con le lotte già in corso, a partire dai conflitti territoriali contro le grandi opere, e con i soggetti collettivi radicati nel mondo giovanile, in particolare organizzazioni studentesche e centri sociali. Ha implicato assumere in maniera decisa l’idea della “giustizia climatica”, già emersa nelle battaglie transnazionali degli anni precedenti, come quadro interpretativo e di proposta, tenendo insieme transizione ecologica e lotta contro le diseguaglianze. E ha implicato discussioni non banali, su cosa significasse “system change, not climate change”, sul rapporto tra critica dell’economia fossile e critica del capitalismo, su quale modello di sviluppo fosse il punto d’arrivo desiderato della transizione rivendicata.
Rivendicazioni senza trattativa
Questi temi già richiedono di confrontarsi con la politica dei governi. Non a caso, come è stato già osservato a livello internazionale, questo clima di protesta per il clima si è concentrato primariamente su rivendicazioni rivolte ai governi nazionali. Un’evoluzione rispetto al focus transnazionale che aveva caratterizzato la precedente fase di marce per il clima in occasione delle COP, ma anche una svolta nell’approccio: seguendo l’esempio del celebre discorso di Greta Thunberg alla COP di Katowice del 2018, vengono avanzate richieste e rivendicazioni, con l’obiettivo di influenzare la politica; ma questo non comporta una trattativa. Piuttosto, le affermazioni e le richieste sono viste come derivanti quasi automaticamente dalla scienza, e ai politici viene chiesto di eseguirle senza fare domande. Un approccio originale a una logica che resta comunque vertenziale. E che, di conseguenza, richiede risultati.
Sul crinale tra radicalismo e pragmatismo
Non è un caso se le forme dimostrative di mobilitazione, come appunto i cortei degli scioperi per il clima, che rappresentavano il 93% degli eventi di protesta per il clima in Italia nel 2019, erano già diventate il 65% nel 2023, mentre forme più radicali di disobbedienza civile (dai blocchi stradali alle forme di pseudo-vandalismo nei confronti di monumenti e opere d’arte) passavano dal 5% nel 2019 al 34% del 2023. Allo stesso modo, se nel 2019 il 73% degli eventi di protesta vedeva la partecipazione di Fridays For Future, la percentuale scende al 47% nel 2023, mentre cresce, in termini relativi, il ruolo di Extinction Rebellion (presente nel 16% degli eventi di protesta nel 2023) e Ultima Generazione (27%), realtà principalmente dedite alla disobbedienza civile. Se l’impatto delle mobilitazioni per il clima sull’opinione pubblica italiana è stato innegabile, mettendo il tema del riscaldamento globale per la prima volta al centro del dibattito, ciò non si è tradotto in conseguenze dirette e significative in termini di policy. Inoltre, quando un tema viene politicizzato, e passa quindi dalla sfera individuale a quella collettiva, diventa facilmente oggetto di polarizzazione. Non a caso, in particolare nell’ultimo anno, le politiche ambientali sono entrate, insieme a quelle di genere e orientamento sessuale, nella lista dei nodi centrali su cui le destre conservatrici e reazionarie scatenano le loro “guerre culturali”. In questo contesto, come abbiamo visto, il movimento tende ad ampliare il proprio spettro di forme d’azioni e di attori collettivi, segno della volontà diffusa di sperimentare nuovi percorsi alla ricerca della maggiore efficacia possibile. Una tendenza rafforzata dalla logica emergenziale che caratterizza buona parte del discorso sul clima. L’urgenza della crisi climatica e la difficoltà di incidere in maniera significativa nell’agenda politica, infatti, spingono il movimento verso direzioni diverse, dalla radicalizzazione delle forme d’azione all’investimento diretto in campo elettorale, passando per sperimentazioni di forme di vita diverse in campo agroecologico. Scelte diverse, giustificate dalla stessa emergenza. Da una parte, la situazione drammatica impone soluzioni radicali, rendendo inutili se non dannosi i compromessi al ribasso che hanno caratterizzato a lungo le politiche dominanti sull’ambiente; dall’altra, la necessità di mettere in campo soluzioni concrete qui e ora non permette di aspettare le condizioni ideologicamente perfette per agire, e impone un approccio pragmatico. Su questo crinale, da cinque anni, cammina il movimento per la giustizia climatica in Italia.