Nathan Ellis è un autore e drammaturgo britannico. A partire dalle prime esperienze di formazione berlinesi, con il suo teatro sperimenta forme partecipative e di co-creazione dello spettacolo assieme al pubblico. Nel 2020 è stato nominato tra i finalisti del Verity Bargate Award per lo spettacolo Super High Resolution, sulla condizione moderna del lavoro di medico e i limiti individuali rispetto all’attività di cura, portati allo stremo dalla pandemia. Il suo ultimo lavoro work.txt è stato concepito a partire dal 2019 e arriva in prima italiana nel 2023. Il testo di Ellis spazia da una chiave lirica a una più ironica, registrando cinicamente la frustrazione crescente degli individui rispetto al sistema produttivo e capitalistico contemporaneo.
Abbiamo chiesto a Nathan Ellis di raccontarci il suo processo creativo e il modo in cui work.txt, in scena il 23 giugno dentro il Festival Socotra, è venuto alla luce.
NE: Ho cominciato a pensare a questo spettacolo circa tre anni fa, raccogliendo spunti sulle diverse culture del lavoro, l’automazione e gli altri fenomeni che hanno impattato il mondo del lavoro. Mi piace anche prendere ispirazione da altri artisti e progetti: ricordo questo show visto a Berlino in cui veniva richiesto agli spettatori di leggere dei testi. Ho pensato fosse un approccio da investigare, così ho deciso di fare uno spettacolo sul lavoro in cui all’audience fosse richiesto proprio di fare la maggior parte del lavoro performativo!
Così ho cominciato a scrivere delle porzioni di testo, ma non avevo bisogno di attori. Abbiamo fatto delle prove pilota con gruppi ristretti di attori, ma di fatto non ho mai visto lo show completo se non la prima volta che è stato messo in scena. Questo spettacolo non esiste se non c’è il pubblico, ed è stato davvero molto emozionante per me il debutto.”
LT – Ogni partecipazione è potenzialmente pericolosa, cioè, senti il rischio che possa sfuggirti di mano l’apporto del pubblico? Come gestisci l’imprevisto e come si negozia di volta in volta il grado di interazione?
NE: Ciò che mi affascina dell’arte partecipata è proprio questo elemento negoziale, per cui ci sono delle aspettative condivise ma allo stesso tempo è tutto basato sulla sorpresa.
Di solito gli spettatori mostrano fin troppo entusiasmo, ma lo spettacolo ha delle linee guida molto nette, una sua struttura definita per cui non può essere travolto dal grado di partecipazione. Se qualcosa va storto nello spettacolo, questo è a riprova del fatto che gli esseri umani non sono macchine, e la loro azione è imprevedibile e questo conferisce valore allo spettacolo: sono gli umani a essere veramente disruptive!
LT – Proviamo a usare la metafora dello spazio teatrale come spazio pubblico: c’è qualcosa che le istituzioni possono imparare da uno spettacolo così, per incentivare la partecipazione in democrazia?
NE: Io credo che in realtà lo spettacolo non sia democratico nel senso che si può fare quello che si vuole: a ogni stadio gli spettatori devono seguire regole precise, non hanno reale margine di scelta nel definire gli esiti.
D’altro canto, lo spettacolo è davvero inclusivo nel senso che proviamo a far sentire le persone a proprio agio rispetto alla partecipazione stessa. Ci sono momenti nello spettacolo in cui dividiamo gli spettatori in categorie, per esempio in base al loro reddito (sopra o sotto i 30k annuali per l’Italia), e mettiamo in dialogo i gruppi per incentivare il dialogo tra di loro e normalizzare la loro condizione sociale ed economica. Allo stesso modo, gli spettatori possono decidere che grado di partecipazione scegliere dentro lo show, e noi rispettiamo questa scelta.
Le pratiche partecipative dovrebbero tenere conto di tutte queste differenze, sia strutturali che di volontà, nel coinvolgere i cittadini dentro la partecipazione.
LT – Secondo me c’è un altro aspetto intrinsecamente democratico del tuo lavoro con Soho Theater. Ci racconti come provate a raggiungere comunità nuove, a far arrivare le arti performative e teatrali a audiences molto diverse tra di loro, che magari le percepiscono come culturalmente inaccessibili o incomprensibili?
NE: Di base è importante avere spettacoli che siano realmente accessibili e comprensibili: la lingua non deve essere difficile, le regole di ingaggio molto chiare, lo spettacolo deve essere popolare. Però ammettiamo tutte le differenze: può capitare che nello spettacolo le persone con un’attitudine più leaderistica prendano il controllo. Nello spettacolo dobbiamo prendere atto che le situazioni di privilegio condizionino l’inclinazione alla partecipazione, invitando le persone nel pieno rispetto delle loro volontà.
LT – A proposito di differenze, credi che ce ne siano per i lavoratori nei settori culturali rispetto agli altri? E quale effetto ha avuto la pandemia sul prestigio sociale del lavoro creativo?
NE: Sono fiducioso che dopo la pandemia le persone abbiano ritrovato il desiderio di condividere i luoghi e uscire fuori dalle proprie case. Sarebbe sciocco però promettere che il teatro possa fare quello che fa Netflix o la televisione o il gaming: il modo in cui il teatro è popolare non è quello dei media digitale, ma riguarda la condivisione reale di esperienze dal vivo. La speranza è che in momenti di crisi come questo non manchi il sostegno alle arti che possono aiutarci ad auto-comprendere quello che stiamo vivendo.
LT – Però c’è un altro evento di portata storica che dobbiamo considerare come fattore esogeno più longevo: l’intelligenza artificiale, dentro il quadro digitale che sta scoraggiando la presenza nelle arene reali. Questo però è il cuore gravitazionale attorno a cui sembra che girerà non solo l’intera economia ma anche tutta l’organizzazione societaria. Il digitale integrerà le arti performative o le spazzerà via?
NE: La tecnologia non è cattiva di per sé, ma il capitalismo trova sempre una sua via per adattarsi. Credo che avremo nuovi lavori, e dovremo imparare a usare questa tecnologia per affrontare il collasso ambientale o le ineguaglianze sociali. Anche per le arti, dipenderà dal valore che daremo a ciò che è ancora generato da mano umana, ma non vedo possibilità di sostituzione della creatività con l’automazione. Come artista e come persona io non posso essere neutrale, ho i miei bias e le mie prospettive personali che condizionano il modo in cui osservo la realtà, raccolgo le informazioni e metto in relazione il mio pensiero con il dibattito pubblico. Questi processi hanno livelli di profondità, flessibilità e moralità che magari non fanno la rivoluzione come le ideologie più strette, ma che rendono umano anche l’esito del nostro lavoro.
LT – Se ammettiamo che il teatro umano è quello che tiene dentro le passioni, e che a loro volta le emozioni possono avere un impatto sulle scelte politiche dei cittadini, definiresti qualsiasi teatro “civico” o “politico”?
NE: Il teatro propriamente politico nasce con Bertolt Brecht. Ma tutto il teatro deve far sentire qualcosa alle persone e poi farle pensare. Così, oggi i lavoratori sono insoddisfatti con il modello economico a cui sono costretti: questa frustrazione entra in work.txt, ma non so se questo lo renda uno spettacolo politico.