Shadow banning: in queste parole si riassume tutta l’ambiguità di un sistema di moderazione dei contenuti che si mostra e non appare, che interviene senza lasciare alcuna traccia. La pratica dello shadow ban consiste nel limitare la visibilità di un video, un’immagine, un commento, un contenuto, una persona o una pagina presente su un social media – o un altro tipo di piattaforma digitale – senza che l’autore se ne possa rendere conto. Nessuno, all’infuori dell’autore stesso, vedrà il contenuto dopo la sua pubblicazione. Nessuno, all’infuori di chi controlla il social media, avrà la certezza che la limitata visibilità di quel contenuto sia conseguenza dello shadow ban o, al contrario, del mancato interesse ed “engagement” dei follower. Solo un controllo incrociato, utilizzando account diversi, non collegati tra loro, potrà dare qualche certezza in più: lo shadow ban, nella sua forma più pura, è l’arte di censurare senza negare la libertà di espressione alle vittime.
Le forme di limitazione dei contenuti
Lo shadow banning è solo una delle tante modalità con cui le informazioni possono essere limitate su piattaforme digitali di proprietà di aziende private, che né gli utenti né tantomeno le autorità pubbliche sono in grado di controllare del tutto. La moderazione di contenuti può essere esercitata anche attraverso la riduzione della visibilità dei post nei newsfeed, l’eliminazione dei contenuti a distanza di tempo dopo la pubblicazione, la limitazione temporanea o definitiva della possibilità di pubblicare nuovi aggiornamenti, fino al blocco della possibilità di promuovere i post a pagamento oppure l’impossibilità di cercare un determinato utente o contenuto sulla piattaforma.
Lo shadow banning, in questo contesto, viene utilizzato in tutte quelle situazioni in cui la rimozione esplicita potrebbe generare un numero rilevante di reazioni negative da parte degli utenti della piattaforma stessa (soprattutto nel caso in cui a essere rimossi fossero personaggi pubblici particolarmente in vista).
Diffusione e impatto difficili da misurare
L’utilizzo di questa pratica, nota fin dagli albori del digitale, non è mai stato indagato in tutta la sua diffusione e pericolosità per l’impossibilità di accedere ai dati in possesso dei social media.
Ad oggi noi non possiamo sapere, con assoluta certezza, se la mancata visibilità di certe tipologie di post sia dovuta a un intervento di shadow banning o non sia, piuttosto, l’esito di uno scarso numero di interazioni ricevute o di problemi di caricamento dei contenuti stessi sulle piattaforme digitali.
Gridare allo scandalo – pardon, allo shadow banning – ogniqualvolta che un contenuto non riceve la visibilità desiderata rischia di far passare in secondo piano la gravità di questa forma di censura. Il timore che le persone e i contenuti colpiti da uno shadow banning possano essere molti di più, e di una varietà molto più ampia rispetto alle stime attuali, non è mai stata così elevata ora che alcuni social media sono politicamente molto più schierati che in passato. Silenziare, in maniera mirata, i contenuti di persone, aziende, politici, ricercatori, giornalisti e personaggi pubblici non graditi ai proprietari dei social è una possibilità da sempre alla loro portata, illimitatamente.
Strategie di fuga e presenza di moderatori
A poco valgono, purtroppo, i tentativi di sfuggire allo shadow ban modificando l’ordine delle lettere nelle parole, sostituendole con numeri o emoticon, utilizzando linguaggi ambigui e riferimenti incomprensibili ai software di moderazione automatica. Basta una sola segnalazione anonima e un solo controllo da parte di un moderatore di contenuti, in carne e ossa, perché chiunque giudicato responsabile di diffondere contenuti non in linea con le policy delle piattaforme possa andare incontro a un silenziamento della sua voce, pur conservando intatte tutte le possibilità di espressione.
Questa perenne confusione tra spazi digitali privati scambiati per piazze pubbliche, tra aziende votate alla crescita illimitata e strumenti gratuiti di partecipazione democratica non fa che alimentare l’illusione che i social possano fungere da principale, se non unica fonte di informazione. Al pari di altri media, tuttavia, anche sui social è in atto una continua selezione editoriale e la difficoltà di percepire tempi, modi e profondità di quest’ultima non può essere una giustificazione sufficiente per decidere di ignorarla o, peggio ancora, sottovalutarla.
Il concetto di “dieta mediatica” diversificata
La soluzione non si trova, come vorrebbe qualche “apocalittico” – per citare un’espressione cara a Umberto Eco – nella fuga di massa dai social e nel ritorno alle vecchie forme di informazione analogica. Piuttosto, nello stato attuale dei mezzi d’informazione, bisogna dotarsi della capacità di sviluppare una propria dieta mediatica bilanciata tra i molteplici strumenti che la tecnica e la società mettono a disposizione. Televisione, radio, giornali, social media, newsletter, podcast sono tutti guidati da logiche di selezione editoriale che rendono impensabile trovare al loro interno la riproduzione fedele della realtà, eppure tutti a vario titolo possono aiutare a rendere questa stessa realtà meno distante e respingente. Essere consapevoli che i social media, nello specifico, possono selezionare i contenuti in maniera mirata, alterando e modificando a piacimento la loro visibilità, deve essere uno stimolo a non scambiare viralità con verità, mancanza con assenza: coltivare altri luoghi, digitali e non, in cui incontrarsi, scambiare informazioni, confrontarsi è il primo passo per ridurre il rischio che il silenzio copra, con il suo rumore, ciò che conta veramente.
Per ulteriori approfondimenti:
- Behind the Screen: Content Moderation in The Shadow of Social Media
- Custodians of The Internet: Platforms, Content Moderation, and the Hidden Decisions that shape Social Media
- Moderazione di contenuti: glossario essenziale
- Shadow banning, così lo affronta il Digital Services Act