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Saccheggia, guadagna, fuggi |

Da Chernobyl al Vajont, il potere tende a non rendere conto del suo operato


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È stato Fernande de Saussure più di un secolo fa – per la precisione nel 1916 nel suo Corso di linguistica generale – a sottolineare come il problema dell’informazione non è mai la consapevolezza di chi fa qualcosa, ma la consapevolezza di chi la subisce. E soprattutto l’obbligo di informare da parte di chi fa.

Chernobyl: il potere che tace

Perché è importante ricordarlo? Perché non è la regola. L’identificazione di “zona di saccheggio” dipende in gran parte dal non agire secondo questa regola.

Facciamo degli esempi.

Alle ore 1:23:45 del 26 aprile 1986, il reattore numero 4 della centrale di Chernobyl esplode.

La mattina del 27 aprile, in Svezia, alcuni lavoratori in ingresso alla centrale di Forsmark fanno scattare l’allarme a seguito della rilevazione di alti indici di radioattività. Si assicurano che le loro centrali siano perfettamente in sicurezza, cominciano a cercare altrove la fonte delle radiazioni e giungono così fino in Unione Sovietica. Chiedono spiegazioni al governo domandando perché non sia stato avvisato nessuno. Dapprima il governo nega la cosa ma ormai anche nelle altre nazioni gli anomali livelli radioattivi hanno messo al corrente l’Europa intera che un grave incidente era occorso in una centrale sovietica. Il mondo intero comincia a fare pressione e, così, i sovietici rilasciano le prime e scarne dichiarazioni sull’incidente.

Chi informa, chi subisce

Perché è importante questa sequenza? Perché il centro del problema non è chi informa, ma il diritto di chi deve essere informato. Una democrazia è tale se mette al primo posto chi subisce, non chi agisce. Un sistema autocratico si misura con quante fake news costruisce per non rendere conto di ciò che ha fatto.

È la logica del saccheggio: incassare subito, portare a guadagno molto, non prendersi la responsabilità delle proprie scelte, tanto a pagare, eventualmente, non è chi investe, ma chi è spettatore non consultato.

Chernobyl non è un caso isolato e non dipende dal comunismo. Riguarda il rapporto tra potere e cittadino. In quel caso (con gli occhi del potere) il rapporto tra potere e suddito.

Dove la storia si ripete

Si possono individuare un numero infinito di luoghi dove si è ripetuta la stessa sceneggiatura.

Vogliamo restare in Italia?

Bene se scrivo Vajont non è lo stesso di Chernobyl in termini di arroganza di chi è potere rispetto ai governati? Se diciamo Taranto o ovvero Italsider, malattie indotte dall’industria dell’acciaio, non è lo stesso paradigma che si ripete? Ma anche, in altri tempi, quando si decide di dismettere, perciò si abbandona un luogo, qual è il rapporto con chi rimane? Non è ancora il silenzio o “fare spallucce” l’atteggiamento di chi prende la decisione? Le persone che restano e continuano a vivere lì quanto contano? Più generalmente: contano? Sono mai contate?

L’impegno civile per un territorio o l’attaccamento alla propria gente nascono dalla convinzione che, di nuovo, le genti del luogo possano perdere ancora una volta, mentre i giochi della grande politica e le scelte di politica industriale (in breve la storia concreta) si fanno ancora sulle loro teste e a loro spese.

Un sentimento che ancora lontano da Longarone e da Taranto è stata la grande lezione civile di Nuto Revelli che con Il mondo dei vinti, si dedica a dare voce a chi non l’ha mai avuta. Anche in quel caso è sempre la stessa storia: il potere si è sempre preoccupato che non l’avesse perché o chi vive nei luoghi di saccheggio è consenso, altrimenti è fastidio, noia, disturbo. Comunque non è degno di cura.

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Articolo tratto da

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