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La Repubblica del pallone di Mr. TV

Dal patrimonio di Fondazione G. Feltrinelli, una selezione di fonti che mettono in luce alcune tappe dell’attività imprenditoriale e di uomo politico di Silvio Berlusconi

 


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Correva l’anno 1977, Silvio Berlusconi era un industriale affermato nell’edilizia e si affacciava per la prima volta al mondo dell’editoria. Correvano voci di un possibile sfondamento nella galassia dell’informazione, anticipate dall’acquisizione del 12% dei titoli de Il Giornale di Indro Montanelli e di Telemilano. Una questione di vendite, pubblicità, strategie di marketing, ma con una visione. I primi punti cardinali del Berlusconi-pensiero appaiono su Prima Comunicazione nel luglio del 1977, in un’intervista fiume scandita da quattro incontri. Sono ancora lontani i tempi del “Siete ancora oggi, e come sempre, dei poveri comunisti”, per l’imprenditore dell’epoca i “comunisti al governo” si chiamavano “socialdemocratici”. 

Dalla discesa nell’editoria fino all’oscuramento delle reti televisive private, per decisione dei prefetti, passano otto anni: nel 1984 la trasmissione di Rete 4 Canale 5 e Italia 1 si spegne temporaneamente in tre regioni d’Italia. Berlusconi aveva occupato un vuoto decisionale e legislativo, approfittando di leggi sulle telecomunicazioni e sulla regolamentazione del mercato televisivo che tardavano ad arrivare.

“Da otto anni il sistema radiotelevisivo vive una situazione di vuoto legislativo. I partiti (DC e PSI) ne sono responsabili e consapevolmente decidono di non legiferare”, scrive Antonio Bernardi il 27 ottobre 1984 dalle pagine di Rinascita (“La colpa non è dei pretori”). L’inazione del governo è lamentata anche da Giovanni Valentini, sulle pagine dello stesso quotidiano (“Il governo dei pretori”).  La legge arriverà, ma non sarà favorevole alla concorrenza: il 4 febbraio 1985 il “decreto Berlusconi” è legge, the show must go on.

In un articolo apparso su Rinascita il 3 novembre 1984, Fabio Mussi ricostruisce la vicenda della “legge condono”, in un mercato auto-generatosi senza regole: “Massima violazione del mercato, in una situazione primitiva” (“Libertà truccata, controllo reale”). Una situazione di “provvisorietà” che sarà legittimata dalla legge Mammì del 1990. Le reti sono salve, la riforma del mercato televisivo non avverrà mai. 

La seconda leva, che anticipa insieme al monopolio della tv di massa la discesa in politica è il calcio: Berlusconi rileva il Milan in crisi il 20 febbraio 1986. “Il calcio può essere usato a fini politici anche meglio della tv. (…) Berlusconi ha utilizzato il consenso dei tifosi come tessuto sociale di un partito politico”, scriveva Massimo Gramellini in un articolo per Micromega del gennaio 1994 (“Berlusconi ovvero la Repubblica del pallone”). 

La politica sembrava una galassia ancora lontana nel 1977, non lo è più negli anni della scalata di Mediaset. Il 26 gennaio 1994, l’imprenditore muta in politico: su L’Espresso del 7 gennaio 1994, Claudio Rinaldi ricostruisce le ragioni della creazione di Forza Italia, la connessione con gli interessi delle aziende, la strategia alla vigilia dell’ufficialità della discesa in campo e del voto di marzo. (“Per l’Italia e per la ditta”). È lo stesso Rinaldi a commentare gli esiti del voto e la vittoria del Polo delle Libertà (Forza Italia-Lega-Alleanza nazionale) del 27 e 28 marzo 1994: “È in arrivo una rivoluzione culturale di destra?” (“Altro che miracolo”). Le ragioni della vittoria si mescolano alle ragioni della sconfitta per la coalizione di sinistra, guidata da Achille Occhetto, “Ciò che deve veramente preoccuparci è la mediocrità di vincitori e vinti (…) Non abbiamo ancora imparato a rispettare l’avversario”, scrive Giorgio Bocca nella sua rubrica L’Antitaliano, su L’Espresso dell’8 aprile 1994. 

Qualche anno più tardi, arrivò l’appello di Paolo Sylos Labini e dell’associazione Opposizione civile, negli anni più critici del berlusconismo, rivitalizzato dalla vittoria alle elezioni politiche del 2001. Alla vigilia del semestre italiano al Consiglio europeo, nel luglio 2003, l’economista metteva in guardia il Parlamento europeo da possibili derive culturali ed etiche della destra italiana, “un’infezione politica che potrebbe coinvolgere l’intera Europa” (“Dossier Berlusconi). Di lì a poco, in un intervento all’Europarlamento di Strasburgo, Berlusconi avrebbe apostrofato Martin Schulz, allora capogruppo dei Socialisti europei, invitandolo a svolgere il “ruolo di Kapò” in un film sui campi di concentramento nazisti. L’infezione politica non è avvenuta, l’Unione europea ha superato numerose crisi e ha rinnovato il suo patto di unione con il Trattato di Lisbona del 2007 prima e con la crisi del Covid successivamente. Il futuro è però incerto: il virus profetizzato da Sylos Labini potrebbe ancora annidarsi tra i banchi conservatori dell’Europarlamento.

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