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Amsterdam: l’etica antirazzista nelle mobilitazioni studentesche pro Palestina


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Nell’immaginario collettivo la città di Amsterdam è un’immagine fantasmatica che comprende una spirale di viziosità, biciclette, persone bionde e slanciate, tulipani. A questo si può aggiungere qualche quadro di Van Gogh, mulini costruiti in mattoni di cotto. I più attenti ricorderanno invece un grande impero marittimo, la talassocrazia seicentesca, il secolo d’oro e Rembrandt.

Sempre nell’immaginario collettivo, i Paesi Bassi sono un paese che funziona. In cui i treni arrivano in orario (sic), in cui il lavoro è pagato il giusto, in cui – esagero – le persone vivono in armonia tra loro. Chi ha maggiore dimestichezza con le scienze sociali, ha sicuramente avuto notizia del famigerato Polder Model, che altro non è che un meccanismo di concertazione tra parti sociali (sindacato e associazioni datoriali) e politica. Se quindi a livello istituzionale – al netto di una crisi pluridecennale – esistono strutture atte a mediare gli interessi e a ricomporre i conflitti distributivi, così la società olandese sembra non essere attraversata da tensioni caotiche o, più intensamente, distruttive.

Su questo sfondo, e sulle aspettative ad esso correlate, spicca quindi sorprendente quanto sta succedendo, a partire da lunedì 6 maggio nelle università olandesi, ed in particolare in quella di Amsterdam.

I FATTI

Tutto nasce con una acampada, un’occupazione un lunedì pomeriggio, in uno spazio antistante la facoltà di Legge e quella di Economia. Nonostante i numeri esigui c’è una certa energia, i presenti sono entusiasti, fanno cori – quello che rimane più impresso è “you are not alone”, chiaramente rivolto ad un ipotetico interlocutore nella striscia di Gaza. Scrivo a Bruno “vedi che gli studenti hanno occupato un’aiuola”. La richiesta è quella di sospendere qualsiasi collaborazione tra le due Università di Amsterdam – l’Universiteit van Amsterdam (UvA) e la Vrije Universiteit (VU) – e le università israeliane. L’argomentazione – la riporto – si articola in modo lineare: “le università israeliane sono parte fondante del potere di Israele che è uno stato coloniale e genocida”. Ogni collaborazione con queste università – specie nel settore bellico – è quindi da considerarsi come una complicità: gli studenti spingono per rompere queste collaborazioni perché credono sia sbagliato essere complici con lo sterminio in corso a Gaza. A rinforzare l’argomento viene portata una contraddizione, che prende la forma di un double standard: un anno e mezzo prima del 7 ottobre 2023, le università olandesi hanno impiegato non più di un mese per bloccare qualsiasi relazione con le università russe; perché non si può fare lo stesso con Israele?

Su questo apparato etico/politico si sviluppa quindi la mobilitazione. Che riscuote un certo successo: tre ore dopo, quando torno allo spazio, ci sono 500 persone, e gli studenti hanno organizzato barricate sulle quattro vie d’accesso. Parla Omar Barghouti, fondatore e promotore della campagna di boicottaggio accademico delle università israeliane, poi un ragazzo legge una poesia. Intanto gli occupanti hanno organizzato una piccola biblioteca, c’è da mangiare.

Con le ultime luci, alle dieci arriva la proposta di mediazione della controparte istituzionale, formata dal rettore dell’Università, dal sindaco e dal capo della polizia – la chiamano “triade” – che dice: “sgomberate in modo autonomo il campo, e per tre settimane blocchiamo ogni relazione con le università israeliane; se rimanete qui, mazzate”. Il presidio rifiuta in modo abbastanza netto la proposta, e ci si prepara quindi all’intervento della polizia – che a dire il vero si fa attendere, tanto che andando via dal campo alle 2, scrivo a Bruno – “qua tutto tranquillo, capace che la polizia non arriva”.

Due fattori concorrono nella spiegazione di questo pronostico. Il primo è che, abbandonando l’accampamento, il rapporto occupanti/polizia è 10 a 1, e quest’ultima sembra più che rilassata. Il secondo, più fondato, riguarda il fatto che sia la giunta comunale che il rettore sono di centro-sinistra, e mi dicono eloquentemente “difficilmente il sindaco manganellerà i figli dei suoi elettori”.

Risultato: l’indomani mattina, circa alle 4, la mobiele eenheid (unità mobile, i reparti antisommossa in cui prestano servizio a rotazione tutti gli agenti di polizia), entra nell’accampamento, rimuove le barricate con i bulldozer e arresta 150 – centocinquanta! – studenti. Alle 13 viene chiamato un presidio, e la strada si riempie, stimiamo che ci siano almeno 1500 persone, forse 2000. Dopo alcuni interventi, il presidio si muove in corteo verso il centro città: l’obiettivo è entrare nella sede di Oudemanhuispoort, a cento metri dal Maagdenhuis – edificio storico già occupato nel 1969 e nel 2015.

Siamo a mercoledì: alle 16 circa di nuovo la mobiele eenheid entra nell’edificio e lo sgombera. Stavolta gli arresti sono di meno – se ne conteranno circa una quarantina a fine giornata – ma di nuovo vengono impiegati i bulldozer e la violenza è meno “mediata” rispetto a due giorni prima.

Di nuovo, un presidio di persone venute in supporto dell’azione degli studenti si agglomera nella centralissima Rokin – la via che esce da Piazza Dam, lo sbarramento dell’Amstel che dà il nome alla città – e inizia a fare pressione sullo schieramento di polizia, rimanendo lì fino a sera, quando il presidio si sposta a Rembrandtplein, per poi disperdersi intorno a mezzanotte.

Nel frattempo, la protesta si è diffusa nelle altre città olandesi con le stesse modalità – Maastricht, Utrecht, Den Haag, Nijmegen, Delft – senza tuttavia la repressione che si vede nella capitale.

Nei giorni successivi – complice le vacanze di maggio – la protesta perde di momento. Comunque, con un corteo giovedì sera e un presidio sabato – attaccato peraltro da non meglio identificati estremisti di destra con fuochi d’artificio e mazze – la tensione rimane abbastanza alta, fino a concretizzarsi lunedì 15 in uno sciopero nazionale di lavoratori e studenti. Dopo alcuni interventi di accademici, il presidio si muove verso l’Institute of Law, che viene occupato. In poche ore la polizia entra nell’edificio e sgombera, mostrandosi sempre meno accomodante nell’affrontare gli studenti.

Dopo due settimane dall’inizio della protesta, la situazione sembra essere ulteriormente pacificata. Il comitato di studenti si sta organizzando per le prossime iniziative, ma la spinta della settimana del 6 maggio sembra essersi affievolita.

UNA RIFLESSIONE

Dei luoghi comuni sui Paesi Bassi, di certo possiamo confermare per vero quello sul benessere diffuso. La miseria dura è assente dal paese; la classe lavoratrice è quasi pienamente occupata, e i marginali vengono tenuti nel decoro da un attento sistema di sussidi mirati.
Le cose chiaramente migliorano salendo sulla scala sociale. La borghesia locale si replica grazie ad un sistema educativo discretamente classista, che consente l’accesso all’università e quindi ai lavori più prestigiosi e meglio pagati solo a chi abbia frequentato il liceo (cui si accede sulla base dei risultati degli esami di seconda media) o apposite scuole private, e il suo benessere è tanto stabile quanto facilmente percepibile come
normale – perché non messo in discussione dalla presenza di disparità inaccettabili nella società olandese – che i suoi esponenti giovanili possono dirsi felicemente estranei a qualsiasi tentazione di analisi sociale basata sulla classe. La cosa, di per sé prevedibile, e priva di vere conseguenze per la porzione di destra di questo settore sociale, diventa interessante quando si considera che, grazie al succitato modello educativo, la quasi totalità delle persone coinvolte nelle proteste – studenti di sinistra – proviene da quell’ambiente. Perché gli universitari olandesi, culturalmente estranei al conflitto politico, si sono mobilitati? E perché in questo modo?

Da intendersi qui nel suo significato originale di classe sociale definita da rapporti sociali, economici e politici, e non già nel suo significato postmoderno di categoria di consumo culturale.

Per capirne i presupposti e gli orizzonti, può essere utile partire dal modo in cui questa protesta è stata gestita dall’autorità. Letteralmente tutti i partecipanti con cui abbiamo parlato mostrano lividi su braccia e gambe, più l’occasionale occhio nero o testa gonfia, testimonianza fisica della liberalità bastonatoria della polizia (qui il link alla pagina instagram di riferimento per le proteste di Amsterdam). Il più eloquente è un amico di Bruno, che ha un bozzo enorme sulla fronte e l’occhio sotto rosato dal sanguinamento intraoculare – senza molto tatto gli suggeriamo di mettersi un casco; lui non ride.

Ci dicono: “italiani e francesi già siete arroganti – quando si parla di politica diventate insopportabili” – non ci sentiamo di controbattere. La percezione media dello studente universitario olandese è che la polizia non possa fargli del male. Come detto prima, la società olandese produce la sensazione che tutto vada per il meglio – forse nel migliore dei mondi possibili, e soprattutto la violenza statale viene raramente esperita dalle classi più ricche. Più in generale, la società olandese, e specialmente qui ad Amsterdam, sembra attraversata solo tangenzialmente dai conflitti che animano le grandi nazioni europee (chi scrive pensa a Francia, Italia e Germania in particolare).

Parlando sempre con Mick, peraltro quadro intermedio del maggior sindacato nazionale (FNV, Federazione dei Sindacati Olandesi), ci racconta che nel suo giro di conoscenze il sentimento prevalente a fronte dell’essere stati pestati dalla polizia è a metà tra la sorpresa e l’indignazione. Amsterdam viene percepita più come un’isola progressista e governata dai propri abitanti progressisti che come la capitale di un paese membro fondatore della NATO e saldamente allineato al principio del diritto all’esistenza e alla difesa di Israele. La novità di una protesta studentesca che assume caratteri così radicali, mettendo in discussione pubblicamente la legittimità di istituzioni quali università e comune (entrambi, come detto prima, di area liberal-democratica) è quindi tale non solo per chi ne viene sfidato, ma in un certo senso anche per gli stessi partecipanti. In una società abituata al dibattito più che al conflitto, questo viene facilmente visto da chi lo agisce come un modo un pò più intenso di fare dibattito, più che come una categoria politica completamente diversa. La controparte, in questo caso decisamente più politicamente consapevole, ha invece deciso di trattarlo per quello che è che rischia di diventare, portando nella pratica decine di studenti convinti di poter parlare davanti a plotoni di polizia sicuri di dover menare.

Occorre poi riportare un elemento chiave, probabilmente quello più esplicativo della partecipazione e dell’impegno messo da studenti e studentesse nel mobilitarsi. L’Olanda, paese piccolo, con poche risorse, ha storicamente costruito la sua ricchezza sul commercio, e strettamente correlato a questo, sullo sfruttamento coloniale di territori esteri. In particolare, questo vale per la zona caraibica, il Sud Africa e l’Indonesia (con cui ha condotto una guerra sanguinosissima negli anni ’40, nel tentativo di impedirne l’indipendenza). La sensibilità collettiva di sinistra guarda a questo passato come ad una macchia nell’identità culturale, e applica diffusamente i concetti della decolonisation theory, secondo il quale l’Occidente bianco domina, distrugge i territori, fa landgrabbing e uccide i gruppi subalterni che si frappongono al raggiungimento della sua supremazia. Su questo humus culturale si innesta quindi la protesta, che ha un profilo etico più che politico. A chi ci chiedeva dall’Italia quale fosse l’analisi all’interno del quale la mobilitazione si colloca non ho saputo rispondere: le categorie di classe, capitale, imperialismo, sono assenti. La guerra in Palestina viene letta come un conflitto coloniale, in cui Israele semplicemente sbaglia ad esercitare il suo dominio sui territori occupati, sulla Cisgiordania e sui territori della striscia di Gaza. Le immagini di distruzione e la conta quotidiana dei morti sotto i bombardamenti rafforzano questa lettura. Ed è quindi in questa risonanza tra dimensione culturale antirazzista e l’intensità dell’orrore a Gaza che sta la radice della mobilitazione e la sua forza. È infatti difficile obiettare, su un piano etico, che il colonialismo sia sbagliato – ed è lo stesso motivo per cui così tanti studenti di Amsterdam hanno deciso di impegnarsi in prima persona nella lotta.

Ci sarebbero altri ragionamenti da mettere in campo – circa, per esempio, la ricezione pubblica della mobilitazione, e del modo in cui l’opinione pubblica olandese sta metabolizzando la violenza esercitata sugli studenti, così come il portato estetico di questa protesta (spesso, guardando il modo in cui i manifestanti si presentavano abbiamo avuto l’impressione che non solo si bardassero, ma si bardassero troppo, risultando in una sorta di performance della protesta e provocando la richiesta sorniona del rettore di non venire ai negoziati a volto coperto “perché si fa fatica a capire quello che dicono”); tuttavia, ciò che è prioritario, e possibilmente utile per una riflessione, è guardare alla natura teorica di questo ciclo di mobilitazioni, che si pone in relazione ad una nuova e diffusa sensibilità antirazzista, e da una lettura etica prima che politica alla guerra in corso a Gaza.

Foto LOVE HUMMUS NOT HAMAS MAKE FALAFEL NOT WAR
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