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Perché Giacomo Matteotti


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Ricordare Matteotti oggi

Abbiamo deciso di cogliere l’occasione di ricordare Giacomo Matteotti non perché martire, ma come figura inquieta nella e della sinistra italiana. L’elogio del martire vuol dire avere una visione sacrificale della politica, vuol dire fissare l’occhio sui carnefici, insistendo perché gli eredi diretti e indiretti, vicini e lontani, simpatetici o ammiccanti alla famiglia politica di Amerigo Dumini e soci, prendano le distanze da quel gesto e da quell’atto.

Considerare, viceversa, la vicenda complessiva di Giacomo Matteotti vuol dire uscire dal «cono d’ombra» della violenza subìta, del torto. Non indulgere in quella scena vuol dire prima di tutto, considerare con rispetto l‘invito di Matteotti a non considerare la violenza fisica subìta, il dato personale, un tema di discussione pubblica. Matteotti non ha subito violenza fisica sul corpo una sola volta, il 10 giugno 1924, ma molte volte, ma non ha mai trasformato quella violenza subìta in un tema nella propria lotta politica.

Per questo affrontare i nodi politici della sua biografia non si risolve né esclusivamente, né prevalentemente, intorno al «martirio». Quello che vogliamo mettere al centro di questo approfondimento, viceversa, consiste nel concentrarsi sullo «scandalo», e dunque sulle pratiche politiche ma anche sulle questioni che rimangono inevase o interrotte con la sua morte violenta.

Portare a casa il risultato

Matteotti è figura che rifugge dai massimalismi, che punta l’occhio e cerca con intelligenza e senza compromessi di «prendere il toro per le corna», con determinazione. Pratica che non consiste nell’evitare lo scontro politico perché il suo obiettivo non è «mostrarsi» ma portare a casa il risultato.

Portare a casa il risultato aveva voluto dire, nel caso delle lotte agrarie, battersi per l’imponibile di manodopera (ovvero obbligo di assunzione da parte dei conduttori e proprietari di fondi di un determinato numero di braccianti a seconda dell’estensione o della coltura del terreno) e risolvere il problema del collocamento (e dunque la necessità di avere liste di lavoratori in attesa di assunzione sottratte al controllo ricattatorio degli agrari).

Quel programma non è solo suo e non è solo nel suo Polesine. Ha precedenti nell’esperienza di Giuseppe Massarenti a Molinella o nelle risaie del vercellese.  L’obiettivo generale non è solo rompere la sudditanza dei contadini, ma anche preoccuparsi di dare una cultura politica ed economica, – e più complessivamente «civile» a coloro che si sono sempre vissuti come braccia, e non come “testa”. È l’esperienza di Nullo Baldini a Ravenna, che si interrompe il 30 luglio 1922 quando le squadre capitanate da Italo Balbo assaltano la roccaforte dell’esperienza riformista delle cooperative (anche se a Baldini andrà molto meglio che a Matteotti perché non ci rimetterà la vita).

Interrogare le sfide del presente

Dunque, a cento anni dalla sua morte, a noi non interessava ripetere l’ennesimo processo moralistico ai carnefici. Interessa cogliere, condividere e proporre alla riflessione le molte domande e le molte inquietudini che Matteotti poneva ai propri, alla propria parte nel tentativo di trovare risposte o inaugurare percorsi che rispondessero alla propria crisi politica, che ponessero il problema non solo di protesta, ma soprattutto di proposta. Al centro di quella riflessione non stava l’eroismo, ma l’abilitazione di nuovi di attori come le leghe, le Camere del Lavoro, il sindacato. Ovvero fare sì che quegli attori si incaricassero di una missione che assumeva la crisi economica e politica in atto anche come un problema proprio, cui si trattava di concorrere per trovare vie d’uscita che non fossero solo subire o che non si risolvessero nell’affidarsi cieco a una capo.

La conseguenza era formulare un diverso sistema di relazioni industriali e avere come guida il principio che pensare sviluppo e progresso implicava condividere scelte e non solo subirle. Voleva dire anche dotarsi di una cultura di governo. Sentirsi governo e dunque pensare e costruire progetto.

Un’ansia di domani che nasceva dalla percezione di non averlo e che per averlo non sarebbe stato né sufficiente né centrale criticare l’avversario, ma interrogare le sfide del tempo presente.

 

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