Articoli e inchieste

Milano 15 dicembre 1969: Piazza Fontana e il caso Pinelli

Mentre la città piange le vittime della strage, in Questura scatta la macchina del fango contro l’anarchico.
Saranno le controinchieste a ristabilire la verità

 

 


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Lunedì 15 dicembre 1969, è un giorno doppio.

La prima scena si svolge in piazza Duomo a Milano.

I funerali delle vittime della bomba alla Banca dell’Agricoltura, Piazza Duomo – Milano, dicembre 1969, foto di Uliano Lucas

È il giorno dei funerali delle vittime di Piazza Fontana. 300mila persone in silenzio davanti al sagrato del Duomo. È una città ancora sconvolta e sorpresa da un evento che percepisce essere un punto della sua storia.
In quella piazza la chiamata era rivolta alla Milano “perbene”, affinché mostrasse il volto egemone della città. Ma in piazza, in massa arrivano anche operai, esponenti e militanti del Pci, dei sindacati, della Camera del Lavoro. Tutti senza bandiere o striscioni. E allora Milano assume un nuovo volto: da città in ginocchio si presenta come città con “gli occhi aperti”. La storia siamo noi, dirà anni dopo Francesco De Gregori.
Dunque, pur nel silenzio, quella scena dice che tutti aspettano una risposta, ma che ci sono, che non abbandonano il campo. Voglio la storia fino in fondo, senza sconti, né scorciatoie. Questo è ciò che rimane sulla piazza nel momento in cui quei funerali finiscono e si tratta di tornare a casa quel lunedì pomeriggio.

funerali Piazza Duomo
Piazza Duomo, 15 dicembre 1969

 

Il caso Pinelli: misteri e ombre sulla sua morte 

Seconda scena. Siano intorno a mezzanotte. Improvvisamente un corpo vola dal quarto piano della Questura di Milano.
Ma quel corpo è quello di un innocente. Si chiama Giuseppe Pinelli. A differenza degli altri uccisi nella filiale della Banca Nazionale dell’Agricoltura alle 16.37 di tre giorni prima, venerdì 12 dicembre, per molti la sua è una vita sospetta e la sua morte rimane incerta. Ma resta il problema che la versione ufficiale diramata suona stonata alle orecchie di alcuni giornalisti. Lì si apre una questione che a lungo segnerà il rapporto tra potenti e opinione pubblica.

Giuseppe Pinelli
Lapide commemorativa a Giuseppe Pinelli

 

Il potere non racconta le cose. Non è un dubbio che sorge automaticamente. Quel dubbio cammina sulle gambe, ma soprattutto sulle dita che corrono frenetiche sulle tastiere. Sono alcuni giornalisti che non si accontentano della versione ufficiale e allora aprono la pratica che in Italia non ha mai avuto una grande tradizione, se non tutte le volte delle grandi disgrazie che segnano un prima e un dopo (il precedente immediato è il Vajont, 9 ottobre 1963).
Non si tratta solo di raccontare, ma di costruire una scena diversa, rimettere in fila gli elementi, provare a fare un ordine diverso. Tenendo appunto come in piazza, poche ore prima, «gli occhi aperti». È Camilla Cederna ad aprire questa pratica, presto seguita da Giorgio Bocca e Corrado Stajano. Altri, senza firmarsi (ma sono: Eduardo M. Di Giovanni, Marco Ligini e Edgardo Pellegrini) pubblicano per la casa editrice Samonà e Savelli (nell’estate 1970), il libro che di fatto obbligherà a non dare più nulla per scontato: La strage di Stato.

Libro La strage di Stato
Libro “La strage di stato” – 1970

 

frontespizio libro La strage di Stato
Frontespizio

 

Quel titolo diventa un hashtag, prima che sia coniata la parola. Da allora quella scena è quel titolo che, come è stato scritto a mezzo secolo di distanza, nel 2019, ha obbligato a fare i conti per davvero con le ombre del potere.
La prima scena scompare e rimane la seconda a fare la storia del Paese. Anche se è vero che senza quella prima scena, la seconda avrebbe incontrato molte più resistenze. Ma tant’è.
Con i libri, qualche volta, si può.

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