Il 12 maggio 2014, ventidue anni dopo il grande incendio che a Sarajevo nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 distrugge l’edificio sulla Miljacka, è terminata la ricostruzione della Vijecnica (biblioteca) di Sarajevo. Con una cerimonia, quel giorno di otto anni fa, riapriva un’istituzione, ma non si riparava una ferita. Per questo, forse, la data del 14 maggio 2014 non è entrata nella memoria collettiva lasciando al centro quella dell’incendio: la notte tra il 25 e 26 agosto.
Certamente nel danno. Ricordiamo: il bombardamento dell’edificio causa la distruzione di circa due milioni tra libri, articoli e riviste, diventando l’evento simbolo del conflitto.
Chiediamoci perché la distruzione di quel luogo – una biblioteca – in una guerra di aggressione nazionalista, volta a affermare l’identità propria contro quella di chiunque altro a essere legittimamente abitante e condividere con altri quello spazio, è capace di comunicare il progetto di oppressione?
La nostra risposta è secca: una biblioteca è un luogo che, forse con imprecisione, ma certamente con intenzione testimonia di una storia comune. È quella storia comune del resto a essere al centro del conflitto nei territori della ex-Jugoslavia.
Biblioteche come luoghi che testimoniano la voglia di sapere
Il libro e le biblioteche, tuttavia, non sono solo passato o accumulo di passato, sono anche i luoghi che se aperti, se consumati da un pubblico, testimoniano della voglia di saperne di più. In breve, sono un modo per dischiarare anche la propria insoddisfazione del senso comune che si ha.
Si pensi all’atto disperato di Guglielmo di Baskerville nelle ultime pagine de Il nome della rosa di Umberto Eco: salvare i libri – quanti più possibile – non è solo un atto di rispetto verso il passato, è anche un modo per dichiarare la propria volontà di andare avanti, di non sottomettersi a chi vuole controllare che si mantenga il tempo presente.
Non solo: è anche un modo per opporsi a chi la storia dall’alto la vuole riscrivere solo a proprio vantaggio.
Come ricorda Jorge L. Borges (in “La muraglia e i libri”, il testo che apre il suo Altre inquisizioni) Shih Huang Ti è l’imperatore che contemporaneamente “ordinò l’edificazione della quasi infinita muraglia cinese” e che “dispose che venissero dati alle fiamme tutti i libri scritti prima di lui”. Borges aggiunge: “Eresse la muraglia perché le muraglie servivano da difesa; bruciò i libri perché l’opposizione invocava la loro testimonianza per elogiare gli antichi imperatori”.
Ne ha poi un secondo che lo storico George L. Mosse ha richiamato molti anni fa: la pratica della violenza che accompagna l’atto distruttivo dei libri del nemico serve a creare identità al gruppo che appicca il fuoco. Per questo l’atto del rogo è da parte chi lo compie un atto festoso: stabilisce chi ha il potere, quanto ne ha e la possibilità di esercitarlo. Si potrebbe anche aggiungere che quel gesto non è unico. Proprio perché dimostrare di avere potere è gratificante, quell’atto tenderà a ripetersi, a diventare rito.
Il libro (ma lo stesso vale per i monumenti), la sua storia, la possibilità che questo coabiti, coesista e sia parte di una collezione che vive della sua disomogeneità, tutto questo disturba i poteri totalitari o coloro che hanno una visione totalitaria della vita pubblica.
Le politiche nazionaliste contro la storia materiale
Tutte le retoriche e le politiche dei neonazionalismi, dei neo-etnicismi e dei neo-identitarismi da fine secolo a oggi (Sarajevo, le statue del Buddha nella valle di Bamiyan in Afghanistan, Palmira, ma anche alcuni tratti della cancel culture) devono fare i conti con questo sapere composito, con la storia materiale di un sapere stratificato nel tempo che testimonia della grande multiformità delle proprie fonti e che dunque per sua natura ha una storia ibrida.
Una storia che ci riguarda da molto tempo.
All’inizio della modernità l’immagine della distruzione del libro è potuta sembrare come un evento possibile a patto che si mantenesse una memoria e una consuetudine con il suo contenuto. L’affermazione della stampa contro il testo manoscritto sembrerebbe una garanzia sufficiente perché anche la possibile distruzione del libro non rappresenti un evento irreversibile.
È Jonathan Swift nel suo Favola della botte ad affidare nelle mani dei posteri la possibilità che un testo si mantenga. Perché si mantengano nel tempo, i libri devono sopravvivere materialmente e devono essere sottoposti a una rilettura continua. Ma non sempre avviene. I libri, osserva Swift, vengono messi al mondo in un solo modo e se ne separano in mille modi diversi. La quantità di carta che serve a produrli, infatti, si disperde per sempre in una quantità di luoghi diversi: nelle latrine, nelle stufe, per schermare le finestre dei bordelli, per rattoppare i paralumi.
In questa osservazione di Swift sembra non essere contemplata l’ipotesi che i libri siano ingoiati dalle fiamme per volontà, come segno del potere. Forse pensava che gli ultimi roghi si fossero ormai spenti con le guerre di religione. Ma si sbagliava. I roghi dei libri sono tornati molte volte a illuminare i cieli.