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Letteratura e industria agli albori degli anni sessanta


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Innesco

Per singolare analogia i due “miracoli economici” che hanno consentito all’Italia di diventare un grande paese industriale hanno avuto entrambi una nascita travagliata, segnato il primo dalle cannonate di Bava Beccaris a Milano nel maggio del 1898 e il secondo dai morti delle tragiche giornate del luglio 1960. Fu la rivolta di Genova a innescare la catena di eventi che costrinse il governo di Fernando Tambroni, che si reggeva grazie al sostegno del Movimento sociale italiano, a dimettersi, aprendo di fatto la strada a una nuova stagione politica.

La rapidità e l’intensità di un cambiamento che investiva insieme l’economia e la società, i comportamenti individuali e la cultura non potevano non toccare anche la letteratura. Per la prima volta una folta schiera di letterati, poeti e scrittori, parte di un più ampio interesse per l’industria che in quegli stessi anni lambiva il cinema, le arti e la fotografia, si sentiva chiamata a confrontarsi con una nuova geografia sociale, che aveva al centro la fabbrica.

Letteratura industriale

Oggi Alberto Prunetti, voce potente della cosiddetta letteratura working class, sottolinea l’estraneità per formazione e cultura dei letterati che guardavano al mondo del lavoro e della fabbrica da chi chi in quella realtà viveva. Questo però non toglie valore al loro lavoro, come mi pare emerga da un numero del “menabò” di Vittorini (n. 4, 1961), ineludibile punto di partenza per qualunque discorso sulla letteratura industriale. Quel fascicolo si segnalava infatti per la consapevolezza della difficoltà di fare i conti con una realtà “imposseduta” come quella della fabbrica, ma anche per la ricchezza degli affondi.

Basta scorrere i nomi e osservare il profilo dei collaboratori per cogliere la densità di quel fascicolo, aperto da Vittorio Sereni, in quel momento direttore dell’Ufficio stampa e propaganda della Pirelli, con la poesia Una visita in fabbrica. In un alternarsi di temi e di forme letterarie, agli interventi critici su quello che si andava profilando come un nuovo genere letterario, di Vittorini stesso e di Gianni Scalia, Agostino Pirella e Marco Forti, si intrecciano le voci poetiche di Giovanni Giudici e Lamberto Pignotti, e il racconto Il capolavoro – rito di passaggio per comprovare la piena padronanza del mestiere al termine dell’apprendistato – di Luigi Davì, primo di una serie di scrittori operai (Vincenzo Guerazzi; Tommaso Di Ciaula, Luigi Di Ruscio e su fino ad Antonio Pennacchi) grazie ai quali la soggettività i sentimenti i desideri e la rabbia di chi in fabbrica viveva ha trovato modo di esprimersi.

Infine, e credo sia testo che ancora oggi conserva uno straordinario interesse, una scelta di pagine del Taccuino industriale che Ottiero era venuto componendo dal 1948, data del suo trasferimento a Milano. Sono pagine che restituiscono la durezza delle condizioni di vita e di lavoro di quella classe operaia che allora, a differenza di oggi, aveva un rapporto vivo con la città. Ma ci raccontano anche la trasformazione dei luoghi, il silenzio e i ritmi di una città che si muoveva aderendo ai tempi della grande fabbrica; insieme all’ansia e al desiderio, di numerosi intellettuali e scrittori, di capire e di essere parte di una trasformazione di cui si percepiva l’eccezionalità e insieme la violenza.

Scritture industriali

Sono istantanee di rara forza, che sotto traccia, letterariamente trasfigurate, si
ritrovano anche in altre prove più compiutamente narrative di Ottieri, Tempi stretti (1957) e nel più noto Donnaruma all’assalto (1959), frutto della sua esperienza come selezionatore del personale dello stabilimento di Pozzuoli, la “fabbrica del colore” progettata da Luigi Cosenza e inaugurata da Adriano Olivetti nel 1955 con un impegnativo Discorso ai lavoratori.

Ma se il numero 4 del “menabò” di Vittorini resta una pietra miliare, va anche detto che il panorama di quanti si cimentavano con la “grande trasformazione” in corso era assai più vario. In molti casi forse più che di letteratura industriale si dovrebbe parlare di scritture industriali ricordando la distinzione di Barthes tra scrittori e scriventi, distinzione che ci permette di ricordare il lavoro politico e intellettuale dei tanti che sperimentavano nuove forme di indagine sociale dalla con-ricerca alla storia orale.

Penso in particolare a Edio Vallini con Operai del Nord (1957), all’inchiesta di Aris Accornero sulla lotte delle operaie del Cotonificio di Valle Susa (1961), oltre che alla militanza intellettuale di Gianni Bosio e Danilo Montaldi.

Lavoro, alienazione

È sempre di quegli anni la stagione felice delle riviste aziendali, vettori di idee e confronti fra intellettuali che della fabbrica sentivano il fascino: una realtà davvero “imposseduta” ma da cui era impossibile distogliere lo sguardo, come testimonia la rubrica delle Visite in fabbrica apparse tra il 1953 e il 1957 su “Civiltà delle Macchine”. Ma analoga operazione di pedagogia della modernità facevano Eugenio Carmi, artista e grafico, e Vita Carlo Fedeli all’Italsider, come prima avevano fatto Leonardo Sinisgalli e Giuseppe Luraghi con la rivista “Pirelli”, senza naturalmente dimenticare quello straordinario intreccio di saperi e culture che fu la Olivetti di Adriano a Ivrea, dove transitarono, tra i molti, Geno Pampaloni, Libero Bigiaretti, Giovanni Giudici, Franco Fortini e Paolo Volponi, il cui Memoriale del 1962 rappresenta uno dei vertici della letteratura industriale.

Lavoro, alienazione, disagio sono sentimenti che percorrono molte pagine di scrittori che dell’industria subiscono il fascino ma che non amano: e qui la teoria dei nomi sarebbe lunga. Fra questi certamente Luciano Bianciardi, autore nel 1956 di un reportage letterario realizzato con Carlo Cassola sui minatori maremmani nei mesi successivi al disastro di Ribolla (4 maggio 1954) dove persero la vita 43 uomini, un episodio che si fa fatica a definire incidente.

Sarà quell’esperienza a spingere Bianciardi a trasferirsi a Milano, alternando al lavoro editoriale, progressivamente sentito come una gabbia, l’esercizio della scrittura. Acre e pungente, colse prima di altri la natura composita e l’incipiente trasformazione terziaria di una città, i cui valori gli sembravano ridursi a “lavurà” e far “danè”, come avrebbe detto Alberto Arbasino, che, senza essere ascrivibile a questo genere di letteratura, aveva avvertito il mutamento antropologico in atto, in forme meno ossessive ma altrettanto pervasive della
Vigevano raccontata da Lucio Mastronardi (o, su un diverso registro, da un grande giornalista come Giorgio Bocca nel suo Miracolo all’italiana del 1962).

Nuove prospettive

Come credo si sia capito, al ribollire di una società che stava uscendo dalle maglie strette della guerra fredda e intravedeva un benessere lungamente agognato corrispondeva la vivacità di un tessuto culturale vibratile, ansioso di provare a leggere la realtà con nuovi strumenti, in una circolarità di idee e parole dove politica, società e letteratura non erano compartimenti stagni, ma mondi in movimento nella speranza (rivelatasi poi illusoria) di poter incidere sui processi in corso. Tempi lontani a cui guardare senza nostalgia, ma con rispetto e interesse.

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