Dal 2008 a oggi, ogni volta che Israele ha lanciato un attacco su Gaza, gli occhi del mondo si sono sempre rivolti all’Egitto: non solo per la sua influenza regionale, ma perché è l’unico paese che confina direttamente con la Striscia e perché dalla firma degli Accordi di Camp David nel 1978 i leader egiziani sono stati i principali intermediari negli affari palestinesi.
Sostegno di facciata
Pubblicamente il governo egiziano mostra tutto l’interesse a voler porre fine all’operazione militare israeliana su Gaza e la tratta anche come una questione di sicurezza e stabilità interna. L’economia egiziana è attraversata da un’iperinflazione che era presente ben prima del 7 ottobre, ma la situazione è nettamente peggiorata dopo gli attacchi Houthi nel Mar Rosso e il conseguente blocco dei flussi commerciali nel canale di Suez. Questo, con il crollo del turismo, ha fatto sì che le riserve di valuta estera tornassero a scarseggiare. E in una società ormai allo stremo, dove la classe media si è sempre più assottigliata e dove da anni i media governativi incolpano “i migranti” della crisi economica, il governo deve ora fare i conti anche con l’arrivo di rifugiati palestinesi – più di 100.000, secondo l’ambasciatore palestinese al Cairo – che si sommano alle persone scappate dalle guerre civili in Sudan e Siria. Solo il 21 settembre scorso il governo ha dato disposizione di triplicare i costi per il rinnovo di tutti i tipi di residenza per i cittadini stranieri che soggiornano in Egitto.
C’è anche l’incognita della stabilità politica interna. Il presidente Al-Sisi, dopo il 7 ottobre 2023, aveva definito l’attacco di Hamas “un’esplosione di rabbia” dei palestinesi causata dalla mancanza all’orizzonte di una soluzione politica, tacciando la risposta militare di Israele come “una punizione collettiva”. Dopo nemmeno due settimane, in vista delle presidenziali che si sarebbero tenute da lì a due mesi, e conscio dei diffusi sentimenti filo-palestinesi, Sisi ha invocato manifestazioni autorizzate di “milioni” di egiziani che avrebbero protestato – entro zone e modalità designate dalle forze di sicurezza – contro qualsiasi spostamento di palestinesi nel Sinai, una proposta tuttora sostenuta da funzionari israeliani per svuotare la Striscia di Gaza.
Torna la repressione nelle piazze
In tutto l’Egitto i segni di solidarietà con Gaza sono stati fin da subito onnipresenti: i taxi coi loro adesivi, i negozi con le bandiere palestinesi, e molti egiziani che indossano la kefiah che per strada. Manifestare per i “fratelli palestinesi” è sempre stato tollerato dai regimi egiziani che si sono succeduti da Gamal Abdel Nasser in poi, ma solo finché si parlava di Palestina e Palestina soltanto. Invece, a ottobre 2023, la Palestina – come altre volte nella storia egiziana – è diventata un ariete per avanzare rivendicazioni interne. Per la prima volta in un decennio, il 20 ottobre 2023 migliaia di persone si sono ritrovata a piazza Tahrir, il luogo simbolo delle rivolte del 2011, e mentre si scagliavano contro gli attacchi israeliani su Gaza e chiedevano l’apertura del valico di Rafah, chiamavano codardi i leader arabi, Sisi incluso, e intonavano il coro della rivoluzione “Ash-shaʻb yurīd isqāṭ an-niẓām”, “Il popolo vuole la caduta del regime”. Le forze di sicurezza hanno immediatamente adottato un approccio “tolleranza zero” verso quella e tutte le successive manifestazioni pro-Palestina, represse – riporta Amnesty International – alla stregua di ogni altro raduno politico anti-governativo: con repressione violenta, irruzioni in abitazioni, sparizioni forzate, e detenzioni amministrative nei campi delle Forze di sicurezza centrali o nella sede dell’NSA, la stessa National Security Agency che i PM italiani ritengono responsabile della tortura e morte di Giulio Regeni.
Secondo l’Iniziativa egiziana per le libertà personali (EIPR) e la Commissione egiziana per i diritti e le libertà (ECRF) 123 persone sono state arrestate da ottobre 2023 a maggio 2024, di cui 53 sono ancora in carcere. C’è chi è finito dietro le sbarre per aver scritto slogan su un ponte in solidarietà con la Palestina seguito da “Sisi vattene”; altri per aver appeso uno striscione fuori dalle loro case che chiedeva “Rompere l’assedio della Palestina, rilasciare i detenuti e aprire il valico di Rafah”. A metà aprile un piccolo raduno è stato violentemente disperso davati all’Ufficio delle Nazioni Unite per la difesa e la promozione dei diritti delle donne al Cairo, perché un gruppo di 20 femministe protestava chiedendo azioni concrete per proteggere le donne a Gaza e in Sudan. Nemmeno il mondo dello sport è stato risparmiato: a metà giugno oltre 200 sostenitori della squadra di calcio egiziana Al Ahly sono stati arrestati dalle forze di sicurezza per aver scandito slogan contro la guerra di Israele a Gaza e aver innalzato la bandiera palestinese nello Stadio dell’Esercito di Alessandria.
Mentre il governo predisponeva gli arresti dei suoi cittadini, il presidente e Ministro degli Esteri esprimevano la loro vicinanza al “popolo palestinese”, fino ad annunciare che l’Egitto si sarebbe unito al caso della Corte Internazionale di Giustizia che il Sudafrica ha portato contro Israele nel dicembre 2023, dove il Sudafrica sostiene che Israele stia violando le convenzioni internazionali sul genocidio. Nei fatti, però, il governo egiziano non ha preso una posizione attiva contro la guerra di Israele: ad oggi non si è ancora ufficialmente unito al caso intentato dal Sudafrica, né il governo ha optato per utilizzare altre leve di pressione, come interrompere i rapporti commerciali e la cooperazione in materia di sicurezza.
Israele-Egitto: Rapporti di convenienza
A partire dal 2013 il governo egiziano ha consolidato la sua cooperazione con Israele in materia militare e di intelligence per contrastare l’insurgenza jihadista in Nord Sinai. Diverse inchieste del 2018 hanno dimostrato come droni, elicotteri e jet israeliani non contrassegnati hanno condotto una campagna aerea segreta di due anni, effettuando più di 100 attacchi aerei all’interno dell’Egitto, con il beneplacito di Al Sisi. Dal 2019 Israele ha iniziato a fornire gas naturale all’Egitto, che è diventato dipendente da queste forniture per soddisfare la crescente domanda interna. Entrambi i paesi fanno parte del Forum del gas del Mediterraneo orientale, in un contesto in cui il gas naturale ha il potenziale di portare all’Egitto guadagni in valuta estera, molto necessari per superare la sua profonda crisi economica.
Molti analisti in queste settimane hanno sottolineato gli sforzi dell’Egitto di fare pressioni sugli Stati Uniti per costringere Israele a firmare un accordo di cessate il fuoco che anche Hamas avrebbe già accettato lo scorso luglio. Ma a causa della sua crisi economica, il Cairo dipende da aiuti finanziari esterni, dai Paesi del Golfo, dal Fondo Monetario Internazionale e dall’Unione Europea, e questo lo rende più malleabile e vulnerabile alle pressioni internazionali. L’industria militare egiziana, un oligopolio che ha sempre più in mano l’intera economia del paese, riceve inoltre ogni anno 1,3 milioni di dollari di aiuti dal Pentagono, versamenti che si verificano dal 1978, in virtù della sigla dell’Egitto degli accordi di Camp David, e che oggi fanno del Cairo il secondo più grande beneficiario di finanziamenti militari esteri degli Stati Uniti dopo Israele.
Il doppio binario di Al-Sisi
Nonostante le pressioni, fonti della sicurezza egiziana hanno riferito che l’Egitto ha respinto una proposta israeliana di collaborazione per riaprire il valico di Rafah tra il Sinai egiziano e Gaza e gestirne le operazioni future. Il piano è stato presentato dai servizi di sicurezza israeliani durante una visita al Cairo, in un contesto di crescenti tensioni tra i due paesi dopo l’avanzata militare israeliana a Rafah. L’Egitto insiste che il valico di Rafah sia gestito solo dalle autorità palestinesi, e sta negoziando con l’Autorità Palestinese per farle assumere il controllo del valico e altre aree strategiche di Gaza dopo la fine del conflitto con Hamas. Il futuro controllo del Corridoio di Filadelfia, che corre lungo il confine egiziano con Gaza, e del valico di Rafah restano a oggi i punti fermi da cui il Cairo non intende smuoversi per raggiungere un accordo sul cessate il fuoco e la resa degli ostaggi.
Il governo di Al-Sisi ha dato ordine di costruire un recinto con muri di cemento alti 23 metri, che parte dal villaggio di Goz Abu Waad, a sud di Rafah, e si dirige a nord fino alla costa mediterranea, come dimostrato da immagini satellitari e video girati dalla Fondazione del Sinai per i diritti umani. Il Wall Street Journal, citando funzionari egiziani anonimi, ha stimato che la sola area recintata potrebbe ospitare più di 100.000 persone sfollate da Gaza.
Nell’attesa di capire se e come prenderà forma un accordo post-bellico, il regime egiziano, indebolito dalla crisi economica e da un’élite militare concentrata sulla propria sopravvivenza e da un modus operandi clientelare, continua a utilizzare la guerra come un’opportunità per ottenere vantaggi finanziari. Una società di proprietà di un alleato stretto del presidente Abdel Fattah el-Sisi guadagna circa 2 milioni di dollari al giorno imponendo tariffe esorbitanti ai palestinesi in fuga da Gaza. Hala Consulting, controllata dal magnate del Sinai Ibrahim al-Organi, detiene il monopolio al valico di Rafah, chiedendo fino a 5.000 dollari per adulto, una cifra ben superiore al salario medio annuale a Gaza.
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