Passeggiando per avenida San Juan
Passeggiando per avenida San Juan, una delle anonime arterie di Buenos Aires, lo sguardo può essere improvvisamente attratto dal susseguirsi di decine di piccoli ceppi di un cemento matto, tendente al verdastro. Si tratta di settantotto baldosas por la memoria, l’equivalente delle pietre d’inciampo, che ricordano le vittime della repressione avvenuta tra 1974 e 1983 in uno dei quartieri della capitale. Su quei monumenti è spesso riportato solamente il nome del detenido-desaparecido, altre volte anche la sigla dell’organizzazione o del gruppo a cui apparteneva.
Arrivando in fondo al viale ci si imbatte poi in una targa che ricorda il punto nel quale venne sequestrato lo scrittore e giornalista Rodolfo Walsh, tra i padri del periodismo narrativo e oppositore del regime. Nel breve spazio di un chilometro si addensa una memoria eroica, quella delle vittime della dittatura di Videla, che è possibile rintracciare anche altrove, in più di milleduecento baldosas ed ex centri di detenzione, musei e murales che punteggiano lo spazio della sola capitale argentina.
Scrittore e giornalista Rodolfo Walsh
Filo rosso capace di tessere insieme la vita quotidiana di Buenos Aires
Più di dieci anni fa ho vissuto per un lungo periodo in una traversa di avenida San Juan e ho camminato avanti e indietro su quel percorso della memoria a cielo aperto. Ricordo nitidamente di essermi interrogato sul rapporto tra la monumentalizzazione del passato dittatoriale e la vita incessante del quartiere e dei suoi abitanti. Mi sono spesso chiesto se esista un filo rosso capace di tessere insieme la vita quotidiana di Buenos Aires: le decine di rosticcerie, bar, pizzerie e negozi dove i porteños consumano il loro tempo freneticamente e avidamente – come accade a New York o a Milano – e il tentativo di fermare la storia argentina a un dato momento, all’epoca del più cruento processo repressivo della storia dell’America latina.
La necessità di non far passare quel passato per un lungo periodo negato, in che modo dialoga con la vita di una città proiettata su di una caotica e distratta quotidianità?
Questa domanda va ben al di là della città adagiata sulle rive del Plata, è la medesima che ci si può porre di fronte ai monumenti delle guerre mondiali o di altri eventi traumatici del Novecento. Eppure, vi è qualcosa di specifico nell’esperienza argentina. La ciudad de la furia nell’ultimo quindicennio si è trasformata, in qualche modo, in un diffuso spazio della memoria, un corpo urbano non ancora sanato, zeppo di cuciture e rattoppi che affollano il suo tessuto memoriale, una dimostrazione dello sforzo collettivo di esorcizzare un passato recente che ancora sobbolle.
Giustizia riparatoria
Parlare della monumentalizzazione della memoria dell’ultima dittatura militare, significa gettare uno sguardo sulle politiche per i diritti umani di un paese che non ha solamente reso omaggio ai detenidos-desaparecidos, ma che ha anche e soprattutto intrapreso una minuziosa azione di giustizia riparatoria che tra il 2004 e oggi ha visto processare e condannare per delitti contro l’umanità più di milleduecento tra militari, appartenenti alle forze di sicurezza, e civili. Si tratta di un caso più unico che raro nella regione, di un esempio di transizione lunga che ha fatto i conti col passato dittatoriale in diversi momenti; nell’85 col primo juicio a las juntas, negli anni Novanta con le leggi dell’impunità che hanno liberato i responsabili dei delitti contro l’umanità e, infine, dal 2006 a oggi con la conclusione dell’impunità e la ripresa dei processi.
Le politiche della memoria hanno dimostrato ampiamente il riconoscimento da parte dello Stato delle proprie responsabilità e, a partire dalla presidenza di Néstor Kirchner (2003-2007), l’adesione al motto coniato dalle organizzazioni dei diritti umani: memoria, verdad y justicia.
Le politiche della memoria sono divenute politiche di Stato
A partire dagli anni della presidenza di Kirchner e poi di sua moglie, Cristina Fernández de Kirchner (2003-2015), le politiche della memoria sono divenute politiche di Stato e attraverso molteplici vertenti le organizzazioni dei diritti umani, le università e i centri di ricerca indipendenti hanno partecipato a una inedita e intensa tappa di ricostruzione della memoria di quanto accaduto durante gli anni Settanta.
Dopo molti anni durante i quali la responsabilità della repressione clandestina statale era stata addebitata ai militanti politici e sociali a suon di teoría de los dos demonios, variante argentina della teoria degli opposti estremismi, il racconto delle organizzazioni dei diritti umani si è codificato. È stata riconosciuta l’enorme sproporzione tra la violenza adoperata dalla guerriglia e quella militare; i giovani militanti sono stati in parte mitizzati, considerati come una “gioventù meravigliosa” e, di conseguenza, è venuto fuori un racconto in parte schiacciato sulla prospettiva delle organizzazioni dei diritti umani e degli ex militanti politici.
Néstor Kirchner, politico argentino, dal 25 maggio 2003 al 10 dicembre 2007 presidente dell’Argentina.
Un racconto adatto ai manuali scolastici
Inevitabilmente diversi attori politici e sociali hanno letto questa ricostruzione del passato come una storia ufficiale, un racconto adatto ai discorsi, ai manuali scolastici e alla comunicazione istituzionale. Probabilmente ci siamo accorti in maniera cosciente che la narrazione dei desaparecidos, delle madres e abuelas, dei nietos recuperados negli ultimi sei o sette anni è diventata storia ufficiale, dunque in parte un racconto monotono, ingessato e protocollare.
La necessità di riscrivere il passato dittatoriale al di là della logica delle vittima-carnefice, che andasse oltre all’acritica esaltazione della gioventù armata degli anni Settanta è apparsa plasticamente nella campagna elettorale del 2015.
Il vincitore di quella contesa, il conservatore Mauricio Macri, durante la sua presidenza (2015-2019) ha provato a riscrivere e completare quello che soprattutto a destra era considerato come un racconto “di parte”. Le polemiche sull’esatto numero di desaparecidos, 30.000 per le organizzazioni dei diritti umani, meno di 8.753 per i gruppi negazionisti, testimoniano quello che nel 2017 Alessandro Leogrande definì una vera e propria “prova tecnica di revisionismo”.
Lockdown argentino e narrative negazioniste
A ogni buon conto, il vero momento di rottura, di scivolamento verso narrative negazioniste, è da rintracciare nei lunghi mesi del lockdown argentino. Proprio in quel frangente, nelle settimane senza fine in cui le città del paese conosureño si sono fermate è iniziata a covare una profonda rabbia nella “pancia” del paese. La frustrazione per le misure della quarantena ha presto lasciato spazio a fantasiose narrazioni sul passato, vere e proprie retroutopie, che hanno veicolato un sentimento revanscista nei confronti dell’allora governo peronista e, tra le tante cose, anche della sua visione della storia e delle politiche per i diritti umani. All’improvviso la narrazione ufficiale di quanto accaduto durante la dittatura è divenuta oggetto di una furibonda disputa, ma soprattutto un catalizzatore del disagio vissuto negli ultimi anni da diversi segmenti della popolazione.
Javier Milei, un autentico outsider
Il resto è cronaca. Un autentico outsider, Javier Milei, col suo tono aggressivo ed esasperato ha vinto le elezioni e dal 10 dicembre 2023 evocando l’idea di un’imminente “decadenza nazionale” che si è candidato a scongiurare, ma anche la necessità di una “memoria completa”. L’immagine di un racconto del passato parziale – da integrare – ha portato al paradosso di voler accostare alla storia della violazione dei diritti umani a quella delle “altre vittime”, dei militari, ma soprattutto dei loro familiari e dei civili “caduti” a opera dei guerriglieri. Nella ricostruzione dei gruppi negazionisti, vicini alla vicepresidente Victoria Villarruel, figlia di un militare e fondatrice di un centro per la “memoria completa”, come ha sottolineato il sociologo dell’Università di Mar del Plata Cristian Pamisciano, alla figura dei desaparecidos fa da controcanto quella “delle altre vittime”.
Javier Milei, presidente dell’Argentina dal 10 dicembre 2023
I desaparecidos? Un effetto collaterale di una guerra voluta dai “terroristi sovversivi”
La nuova sensibilità nei confronti del passato recente è apparsa plasticamente nel discorso finale della campagna elettorale di Milei, nel quale ha ripetendo parola per parola la difesa del generale Massera durante il processo alla giunta militare del 1985: i desaparecidos? Un effetto collaterale di una guerra voluta dai “terroristi sovversivi”.
Justicialismo come origine della decadenza
Molto si potrebbe dire di come Milei, Villarruel e le destre che si dichiarano “libertarie” stiano abilmente sfruttando la frizione tra il racconto delle organizzazioni dei diritti umani e quello della “memoria completa” come un cavallo di Troia per far breccia su di una società sempre più incattivita. L’inizio di questa vera e propria offensiva nei confronti del racconto della “storia ufficiale” ovvero quella suffragata da ampi settori della storiografia di riferimento, ha dato il via a uno stile politico consolidato, magistralmente adoperato sui social e nei programmi tv.
La conquista del territorio del passato da parte del movimento del presidente “anarco-capitalista” ha avuto un indubbio successo: convincere moltissimi cittadini che i mali del passato siano stati originati da una cultura politica, quella populista, e che proprio il justicialismo abbia condannato il paese a una irrefrenabile “decadenza”.
Peronismo come inizio della fine
L’uso sconsiderato del passato ha portato non solamente Milei e i suoi adepti del movimento La libertad avanza a rivisitare la storia attraverso questa lente deformata, ma anche opinionisti tv, giornalisti e posati accademici ad agitare retoricamente il mito “decadenza argentina”, le cui uniche responsabilità risiederebbero in una malattia terminale chiamata peronismo. Peronismo come inizio della fine di una nazione liberale incamminata a fine Ottocento sulla strada del progresso economico, peronismo come attore capace di “appropriarsi” della dolorosa storia dei desaparecidos e utilizzarla per i propri interessi di parte.
Di fronte a un uso così manicheo ma anche essenzialista del passato, un gruppo di storiche e storici argentini, poi supportato da una sottoscrizione internazionale, ha pubblicato una lettera aperta dal titolo Milei ante la historia. Nel documento che circola da qualche settimana sul web si può leggere che “la retorica aggressiva, classista e regressiva del presidente Javier Milei chiama in causa spesso la storia [che usa per] relativizzare in maniera disumana le conseguenze del terrorismo di Stato, aderendo alle correnti negazioniste e apologetiche della dittatura militare”.
Il 24 di marzo è una data divisiva
In questo clima di quotidiani scontri, provocazioni e aggressioni nei confronti di quei gruppi che per più di quarant’anni hanno tenacemente alimentato la memoria del paese, è intervenuta la vicepresidente Villarruel, che ha definito “morbosa” l’attenzione per il 24 marzo –l’anniversario del golpe– da parte delle organizzazioni dei diritti umani. Dal 2002 quella data è divenuta una festa nazionale nella quale si celebra la giornata per la memoria, la verità e la giustizia, ma per Villarruel, che come avvocata ha difeso e collaborato con le organizzazioni di militari condannati per delitti contro l’umanità, il 24 di marzo è un inganno, una data divisiva.
Manifestazione in occasione dell’anniversario del golpe, 24 marzo 2016
24 marzo del 2024
In un contesto contraddistinto da atti simbolici e sgarbi istituzionali nei confronti di abuelas, madres e dei sopravviventi dei centri di tortura siamo arrivati al 24 marzo del 2024, una data particolarmente carica di significato, il primo anniversario del golpe che si celebra con un governo così apertamente negazionista.
L’arrivo di un governo ostile nei confronti delle politiche della memoria può far pensare a quanto accaduto col 25 aprile in Italia a partire dal primo governo Berlusconi: la disputa per una data così significativa diviene motivo di scontro tra le parti.
Il 24 di marzo – stando alle dichiarazioni del nuovo esecutivo – non è la festa di tutti gli argentini, ma di una parte, non è più il momento di rievocazione delle violenze patite dai desaparecidos, della fine della democrazia e dell’inizio di una efferata dittatura, ma un momento per ricordare che le forze armate avevano le loro ragioni.
Delegittimare le classi subalterne
Questo 24 di marzo ero a Buenos Aires e ho deciso di prendere parte alla grande manifestazione di piazza. Ho cercato di registrare gli umori di quel popolo, tutt’altro che minoritario, che ancora si riconosce nella narrativa dei diritti umani. La giornata è cominciata, come spesso accade a Buenos Aires, con un grande spiegamento di mezzi, autobus, treni e automobili con i quali i manifestanti si sono diretti verso il centro della città.
Dall’obelisco fino a Plaza de mayo era difficile muoversi, le strade erano sature di persone, residenti, ex militanti, scolaresche e anche di un denso e pervasivo fumo di salsicce arrosto sistemate in panini, i choripan. Quelle pagnotte non sono solamente un elemento di colore, ma anche oggetto di una battaglia simbolica. Il choripan è il panino consumato dai manifestanti nelle strade della Buenos Aires che scimmiotta Parigi, ma soprattutto un epiteto spesso usato dagli snob dei quartieri bene per definire i manifestanti provenienti dalla grande periferia, una maniera di delegittimare le classi subalterne e la loro agenda politica e sociale.
Giorno della “memoria completa”
La manifestazione, con le diverse colonne e organizzazioni, si è svolta nel seno della tradizione di questi eventi, se non fosse che proprio qualche ora prima che cominciasse, dal canale ufficiale della Casa rosada su X è stato diffuso un video auspicato dal nuovo esecutivo.
Il messaggio del governo è stato chiaro fin da subito: il 24 di marzo non dovrà più essere il giorno “della memoria” tout court, ma della “memoria completa”. Non più, quindi, “solamente” il punto di vista delle vittime civili, dei desaparecidos – un punto di vista parziale – ma anche quello dei militari golpisti e delle vittime della guerriglia.
Il risultato, da come lo si veda, è un ibrido che fa acqua da tutte le parti, una sorta di 25 aprile al rovescio, nel quale non si celebra solamente la liberazione, ma anche le ragioni dei missini e dei nazisti, un mix il cui reale obiettivo è gettare discredito sul racconto di cosa sia stata l’ultima dittatura e di delegittimare le organizzazioni dei diritti umani che, nell’Argentina attuale, rappresentano un attore sociale e politico di primaria importanza.
Battaglia culturale – contro-cancel culture
Possiamo constatare che quello che oggi accade in Argentina, ma anche in Brasile, in Cile e in altri paesi della regione, è che la storia si è ritrovata sulla prima linea di una battaglia culturale ingaggiata dalle nuove destre. Una battaglia contro un decennio di grandi progressi sul piano dei diritti individuali e collettivi, che non ha risparmiato il territorio del passato. Le parole d’ordine, i simboli, le immagini e le memorie care al progressismo sono al centro di una sorta di contro-cancel culture che vede piccoli gruppi di giovani, troll e hater attivissimi su X, TikTok e altri social agitare vecchie parole d’ordine che pensavamo oramai fossero state archiviate col Novecento.
L’inganno della retroutopia
L’Argentina si dimena in una congiuntura assolutamente sfavorevole; ciclicamente ricade nei circoli viziosi di una economia che la strozza e che, dai suoi albori come repubblica a oggi è ancora dipendente dall’esportazione di materie prime per ottenere divise pregiate. Stando sul posto si percepisce nitidamente l’immagine di un paese che annaspa in una contemporaneità cupa, senza vie d’uscita, magistralmente interpretata dalle nuove destre che, sapendo perfettamente di non poter e voler risolvere i suoi problemi strutturali, alimentano l’inganno di una retroutopia di grandezza sciupata dal progressismo. La storia, così declinata, non è una prospettiva emancipatrice, essa diviene un luogo immaginario, rifugio da una contemporaneità difficile.
Oggi l’Argentina è un paese che produce alimenti per quattrocento milioni di persone, nel quale la metà della sua popolazione, ventidue milioni, non consuma due pasti al giorno.
In questo scenario, una storia distorta e manichea si è trasformata in un oggetto di catarsi collettiva con la quale si tenta di giustificare, con spiegazioni semplici e superficiali, una serie di problemi apparentemente irrisolvibili.