Articoli e inchieste

La satira come specchio della società.
Un’intervista a Giacomo Papi


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“I politici di oggi sono sempre più simili ad attori in scena. Salvini che mangia all’autogrill o Trump sono meme di loro stessi, come si fa a fare satira quando fanno già tutto loro?”, si chiede lo scrittore Giacomo Papi. Da Jonathan Swift a meme online, un’intervista a tutto campo sullo stato di salute della satira a dieci anni da Charlie Hebdo. 

Jonathan Swift
Jonathan Swift

Cos’è per lei la satira? 

La satira, almeno quella che amo, è quella che a un certo punto ti fa riconoscere e ti fa dire: cosa sto facendo? Chi sono? Non mi piace invece la satira che diventa uno strumento di potere, come ha fatto Beppe Grillo per vincere le elezioni. Preferisco quella che possiamo chiamare satira specchio. L’esempio è Jonathan Swift che in Una modesta proposta, di fronte alla carestia in Irlanda, propone di risolvere il problema mangiando i bambini poveri. E c’è chi lo prende sul serio, chi discute la proposta in Parlamento! Questa è satira specchio perché è uno specchio della società. 

Dove vede oggi questo tipo di satira?  

Nel web c’è qualcosa che assomiglia a questa pratica della satira, i meme. Ci sono account Instagram che, attraverso il linguaggio dei meme, lavorano sulle nostre credenze, sui nostri pregiudizi, sulle nostre identità. Funziona perché forma una collettività composta da una serie di identità disperse che hanno gli stessi riferimenti culturali.  

A cosa è servita la satira su Berlusconi? 

È servita soprattutto a lui. Con questo non dico che non sia stata divertente, lo era. Però faccio fatica a pensare che sia servita. Perché quelli che ridono confermano la loro posizione, e quelli che non ridono si arrabbiano. Berlusconi è sicuramente uno che ha saputo adattarsi, dotato di senso dell’umorismo e di autoironia, ha resistito a molti cambiamenti e crisi. Non so quanto gli attuali politici lo siano.  

C’è stato un Jonathan Swift, negli ultimi trent’anni, in Italia? 

Non c’è stato un Jonathan Swift, ma ci sono stati dei grandi satirici: Altan, Serra, Guzzanti, Vincino. E anche oggi ce ne sono: Makkox, Gipi, Zerocalcare. Nel nostro Paese c’è però un problema del contesto in cui agisce la satira, che spesso è confinata all’interno di contenitori ben definiti, quando invece per respirare dovrebbe essere smarcata da un ambito di appartenenza.

Con i politici di oggi è più difficile fare satira? 

Gli attuali governanti sono sempre più simili ad attori in scena. E questo toglie alla satira un’arma fondamentale. Salvini che mangia all’autogrill o Trump sono meme di sé stessi, delle figure della commedia dell’arte. Come si fa a fare satira quando fanno già tutto loro? Meloni è più dignitosa, anche se non è priva di elementi da maschera: quando sgrana gli occhi, fa le faccine o tutta una serie di altri gesti. 

I politici del passato, come Andreotti, per capirci, erano delle maschere mute e chi voleva far satira poteva marcarne le caratteristiche. Oggi l’accentuazione è già nell’origine. 

A distanza di 10 anni dall’attentato al settimanale francese Charlie Hebdo, chi ha vinto: la satira o i suoi assassini? 

Gli assassini di Charlie Hebdo hanno perso, lo dice la storia. Dieci anni fa sembrava che gli islamisti fossero una presenza costante nelle città europee. Invece la loro follia non è riuscita a dilagare. Quella di Charlie Hebdo era una critica all’Islam tagliata col coltello, ma la satira ha bisogno anche di questo. Un aspetto da sottolineare è la mancanza di umorismo degli attentatori. Il fondamentalismo è consequenziale a un mondo senza satira. Se non possiamo ridere, rischiamo di dover uccidere.  

Come bilanciare la satira con la cancel culture e il rischio di offendere la sensibilità altrui? 

Io penso che la satira debba stare al riparo dalla paura di non offendere. Voler stabilire ciò di cui si può o non si può ridere significa pretendere di cancellare il male dalla storia del mondo. La satira invece riconosce sempre che il male nel mondo esiste e non vuole cancellarlo, perché altrimenti non ci rimarrebbe niente di cui ridere. Tutta l’arte e la satira si fondano sull’idea che, attraverso l’empatia, possiamo raccontare l’esperienza di qualcun altro, con tutti i difetti che comporta. Se non possiamo più farlo, è un disastro 

C’è un esempio che ripeto spesso. Io voglio che la statua di Montanelli rimanga ai giardini di Porta Venezia. Voglio anche che ogni tanto qualcuno ci spruzzi sopra della vernice rosa. Non avere quella statua significa fingere che Montanelli non sia mai esistito, che quella pagina della storia italiana e del colonialismo italiano non ci sia mai stata. Perché se immaginiamo un mondo in cui il male non ha più una forma di rappresentazione, se non quella della condanna, allora diventiamo incapaci di comprendere noi stessi. E poi, non riusciremo più a raccontarci.

Ridere è solo un metodo per vedere meglio le cose e capire quanto tutto, noi compresi, possa essere tragico ma sempre e decisamente poco serio.

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