Quali cittadini per quale idea di Europa? È questa la domanda a cui si è cercato di rispondere nel corso del secondo appuntamento di History Lab dello scorso 7 giugno 2022. Esortati nelle riflessioni da Maurizio Ferrera, a suggerire percorsi a partire da questo interrogativo sono stati Sabina Loriga, Jerome Malois, Antonio Canovi e Francesco Filippi.
Il sottotitolo di questo appuntamento era costituito da un’affermazione:
Sebbene sia stata necessariamente riconosciuta la centralità della storia nel dibattito pubblico e, nello specifico, nel processo di costruzione della cittadinanza europea, questo assunto iniziale è stato a sua volta vagliato come quesito. Ciò che è stato discusso, infatti, è in che termini la public history possa effettivamente costituire una pratica valida per restituire una visione partecipata e collettiva della storia di una comunità plurale, quale è quella europea; così come si è riflettuto in quale misura essa possa concretamente offrire risposte coerenti al tempo che stiamo vivendo, considerandone potenziali ricadute e limiti. È dunque in questa direzione che il dibattito si è arricchito delle riflessioni di Giandomenico Piluso, Marcello Flores, Mirco Carrattieri, Marco Soresina, Alessandro Casellato, Niccolò Donati, Anna Mastromarino, Francesca Socrate e David Bidussa.
A costituire punto di contatto con il precedente incontro del 24 maggio è stato senz’altro il tema dell’instabilità nel processo di definizione degli Stati-nazione, che inevitabilmente va ad accrescere le difficoltà che il progetto europeo si trova in questo momento a fronteggiare.
Come ricordato da Maurizio Ferrera, l’idea di Europa è oggi particolarmente fragile e a metterla in crisi è anche l’apparente assenza di una chiara visione sul futuro di questa comunità, riscontrata da una larga fascia dei cittadini dei suoi Stati membri. In politica, le visioni sono costruzioni simboliche che forniscono significato e senso di direzione alle interazioni sociali. In quanto tali, risultano significative specialmente per quelle entità che si autodefiniscono comunità politiche da relativamente poco tempo e che, per questo motivo, risultano particolarmente fragili, come è il caso della comunità europea.
È in relazione all’elaborazione di queste visioni che la storia emerge come sostegno fondamentale. Il processo di elaborazione non può che avvenire infatti nel tempo presente. Il presente, tuttavia, riprendendo i fili di una lunga tradizione di pensiero che si àncora in Agostino, altro non è che un istante tra passato e futuro: è il presente del passato che incontra il presente del futuro. Se dunque l’Unione Europea necessita oggi di una nuova visione, non può che farlo connettendo la memoria storica, ovvero il presente del passato, con l’immaginazione politica del futuro.
Proseguendo idealmente così il filo della precedente riflessione che ruotava attorno alla storia come strumento di guerra anche in chiave generativa, ciò che ci si è chiesto nel corso di questo incontro è attraverso quali pratiche vogliamo lavorare. Attorno a quali domande vogliamo riflettere sul passato? E ancora, qual è la selezione del passato che, come storici, vogliamo produrre e quindi contribuire a trasmettere? Infine, attraverso quali strumenti e iniziative vogliamo pensare al passato, per rafforzare l’Unione Europea come “comunità immaginata”, usando le parole di Benedict Anderson? Se infatti una delle sfide più urgenti è rappresentata dalla costruzione di un senso comune di cittadinanza, è necessario porsi innanzitutto il problema di quali strumenti culturali e professionali si mettono a disposizione dei cittadini del presente, e si consegnano così a quelli del futuro.
La figura del public historian
In questo senso, la figura del public historian non dovrebbe assumere le caratteristiche di quella militanza tradizionale a servizio del principe o della controstoria. Il ruolo pubblico degli storici come costruttori di memoria e di identità collettive, d’altra parte, non è una novità, specialmente se ad essere preso in considerazione è il contesto europeo e, in senso ancora più ampio e generalizzato, il “mondo occidentale”. Come ricordava di recente Chiara Paris
A questo proposito il 7 giugno Mirco Carrattieri proponeva un cambio qualitativo rispetto alla funzione degli storici all’interno della società. In questa prospettiva, il contributo della public history non dovrebbe andare tanto nella direzione della costruzione identitaria, quanto nell’offrirsi come mediatrice tra diverse forme di memoria. Se infatti si vuole pensare all’Unione Europea come “comunità immaginata”, ciò non può essere fatto proiettando l’immagine di un’identità indistintamente comune, trasversale e compatta, bensì mettendo in connessione memorie differenti e complesse attraverso reti transnazionali che tengano conto di un’identità a tutti gli effetti plurale e poliedrica. Un’identità, questa, che dovrebbe risiedere proprio nell’accostamento e nella coesistenza dei fattori che la compongono, e non nel risultato forzato che la somma di questi elementi potrebbe produrre.
All’interno di questo quadro, il ruolo dello storico dev’essere allora quello di continuare a fare il proprio mestiere, ovvero comprendere e disvelare la realtà sociale, ricordando la centralità del conflitto all’interno dei processi di costruzione identitaria e di elaborazione della memoria. È proprio attraverso narrazioni “conflittuali”, dunque distanti da quelle rassicuranti e consolatorie dei miti consolidati, che in passato si è potuto dare riconoscimento a quei soggetti sociali tendenzialmente marginalizzati. Come hanno mostrato i membri di AISO – Associazione Italiana di Storia Orale (Antonio Canovi, Alessandro Casellato e Francesca Socrate), è proprio attraverso la spiegazione del funzionamento della realtà, della messa in relazione tra le memorie private e le narrazioni pubbliche – dunque attraverso narrazioni anche co-costruite – che questi soggetti hanno potuto accrescere la propria consapevolezza in termini di chi fossero, che spazio avessero e, soprattutto, quali vincoli sociali li opprimessero.
In chiusura dell’incontro, anticipando la riflessione del prossimo 14 luglio, è stato così richiamato uno strumento chiave nella costruzione del senso di cittadinanza, ovvero il calendario civile. Affinché esso si possa dimostrare effettivamente adatto alla proiezione di una visione futura della comunità europea deve essere ripensato non in funzione delle date più concilianti e specificamente identitarie (spesso modellate sul paradigma vittimario), bensì sulle date più inquiete, che ci obbligano a lavorare e a confrontarci. È in questo che risiede il vero esercizio di democrazia: nella volontà di stare nella società facendo emergere i conflitti e, dove possibile, volgerli in positivo.