Eliminare la guerra tra gli Stati nazionali
La violenza e il sangue hanno attraversato l’intera storia dell’umanità. Guerre e pace hanno segnato per secoli i rapporti tra i popoli. Ma il Novecento ha introdotto novità rilevanti. Si è cominciato a discutere della pace come di un obiettivo raggiungibile; della guerra come di uno strumento tanto distruttivo da non poter più essere utilizzato; della non violenza come di una scelta praticabile non solo a livello personale ma anche politico; dell’alternativa tra deterrenza e disarmo ecc. Alcuni di questi temi erano emersi anche in epoche precedenti, ma nel XX secolo sono stati approfonditi da molteplici prospettive, sviluppando tra loro collegamenti inediti e attribuendolo loro una forza persuasiva prima sconosciuta, tanto da diffondere un pensiero nuovo sulla guerra e sulla pace.

In particolare, si è cominciato a discutere della possibilità di eliminare la guerra tra gli Stati nazionali. Si è discusso, sottolineo, non di sradicare tout court la violenza dalla convivenza umana o dalle relazioni tra i popoli, ma di eliminare la guerra quale strumento ordinario di risoluzione delle controversie internazionali, sostituendola con gli strumenti della politica, della diplomazia ecc. Politici, diplomatici, militari, intellettuali, leader religiosi, gente comune hanno preso seriamente in considerazione questa possibilità. Sono stati scritti libri, si sono tenuti convegni, se ne è parlato in importanti sedi internazionali. Un’aspirazione alla pace sempre più diffusa – soprattutto per i tragici effetti delle due guerre mondiali – ha fatto apparire la possibilità di eliminare la guerra un obiettivo raggiungibile e comunque da perseguire ad ogni costo. In Europa occidentale, nella seconda metà del Novecento milioni di uomini e di donne hanno finito per credere che la guerra sarebbe via via scomparsa dall’orizzonte dell’umanità.
La prospettiva della pace
Si è così progressivamente rafforzato la prospettiva della pace, da realizzare attraverso una costruzione complessa, con il coinvolgimento di molti attori, un’azione su più piani e l’utilizzo di strumenti diversi. Molti elementi di tale prospettiva non si sono saldati tra loro in modo organico; i processi che ne sono scaturiti non sono stati né lineari né completi; i loro risultati non sono stati sempre sicuri, immediati o chiaramente percepibili. In molti casi non c’è stata piena coerenza tra mezzi e fini. Tra le contraddizioni più evidenti ci sono stati l’uso delle armi per raggiungere la pace – ad esempio nelle Resistenze europee alla macchina da guerra nazi-fascista – e il ruolo svolto dalla forza – ad esempio quella degli Stati Uniti – per garantire la stabilità internazionale dopo la Seconda guerra mondiale. Durante la Guerra fredda, il mantenimento della pace è stato affidato all’equilibrio del terrore. Ma nel XX secolo il perseguimento della pace come valore assoluto non ha impedito, anzi ha favorito il raggiungimento, anche in modo contraddittorio, di importanti obiettivi parziali. Come ricordava Meuccio Ruini in Assemblea Costituente, “un santo della politica, Gandhi, ha detto che, appunto perché credeva alla verità eterna delle idee, sentiva la necessità e la bellezza del compromesso”.

Lo sviluppo del diritto internazionale
Gli effetti complessivi sono stati storicamente rilevanti. La prospettiva della pace ha favorito uno straordinario sviluppo del diritto internazionale, ha ristretto le motivazioni legittime per muovere guerra e ampliato lo ius in bello o diritto umanitario. Ha fatto nascere organizzazioni internazionali quali sedi in cui risolvere o, ancor meglio, prevenire conflitti armati, come la Società delle nazioni e l’ONU. Ha ispirato la creazione di organismi sovranazionali, come l’Unione europea, tra popolazioni in conflitto tra loro per millenni, come Francia e Germania. Ha spinto Stati nazionali come l’Italia, la Germania e il Giappone a inserire il ripudio della guerra nelle loro carte costituzionali. Ha favorito la limitazione degli armamenti, la rinuncia alla loro produzione e, persino, la distruzione concordata di grandi arsenali militari, specie nucleari. Ha incoraggiato – insieme, ovviamente, a molte altre motivazioni – scelte per la non violenza in differenti contesti storici e culturali. E, soprattutto, ha impedito lo scoppio di una terza guerra mondiale o di conflitti nucleari, ha permesso interventi o mediazioni di pace in molte situazioni di conflitto, ha favorito forme non violente di importanti transizioni politiche come quelle dei Paesi del blocco sovietico ecc. In Europa occidentale, da ottanta anni a questa parte, la guerra quale strumento di risoluzione dei conflitti internazionali è stata effettivamente eliminata: è anche questo un risultato storico non da poco.
Pensare la pace oltre lo scetticismo
Oggi l’eredità del Novecento in materia di contrasto alla guerra sembra debole, la sua efficacia ridotta e scarsa la sua capacità di influire sui conflitti armati. Naturalmente, nelle vicende storiche nulla è mai definitivo e anche risultati importanti possono essere spazzati via, in tutto in parte, da nuovi sviluppi. Non si può escludere che la via novecentesca alla pace sia o diventi del tutto obsoleta. Ma l’eventualità che ciò accada dipende anche dal modo in cui uomini e donne del XXI secolo guardano la realtà, interpretano i processi, immaginano il futuro.
Il destino del mondo, in altre parole, dipende molto anche dalla nostra capacità di
pensare la pace. Oggi prevale lo scetticismo. Poiché, malgrado tante discussioni e tanti sforzi la guerra non è stata eliminata, se ne deduce che è impossibile farlo e si torna a presentare il conflitto armato come un modo “normale” di risolvere le controversie internazionali. Ma – contrariamente alle apparenze – queste convinzioni non scaturiscono dall’esperienza storica e solo impropriamente possono essere definite realistiche. Si sono formate piuttosto su altre basi, spesso deboli e discutibili, e si sono imposte come “pensiero unico” rifiutando processi di verifica critica e bloccando la formulazione di alternative. Si alimentano di un’idea schematica che vede nella forza – non solo militare, ma anche politica, economica o altro – il fattore decisivo se non l’unico che determina i processi storici. Sono legate di frequente ad una concezione astratta e astorica della pace, che fatica a tradursi in termini concreti, e tradiscono un semplicismo incompatibile con una realtà del mondo contemporaneo ogni giorno più complessa. Si tende così a ignorare che gran parte del patrimonio novecentesco in materia di pace continua a presentare elementi validi.
Ucraina: il gioco delle parti
Faccio un solo esempio. Riguardo al conflitto in Ucraina, nell’opinione pubblica occidentale per tre anni sono prevalsi schematismi e ambiguità funzionali alla continuazione del conflitto. Non solo gran parte dell’opinione pubblica ma anche leader politici, responsabili militari, intellettuali e molti altri si sono divisi tra “sostenitori della pace” e “sostenitori della giustizia”, tra sponsor di una “pace a tutti i costi” – e cioè di una fine delle ostilità che potrebbero però ricominciare il giorno dopo – e sponsor di una “pace giusta” – che però potrebbe richiedere una continuazione della guerra all’infinito. Spesso gli uni hanno accusati gli altri di posizioni filo-Zelensky e, viceversa, i secondi hanno accusato i primi di posizioni filo-Putin. Ovviamente, aggressori ed aggrediti non possono essere messi sullo stesso piano e a questi ultimi non può essere richiesto di rinunciare a qualunque forma di resistenza. Né si può negare l’importanza di una attenta ricostruzione storica delle cause e delle responsabilità anche remote del conflitto. Ma sono mancati luoghi e momenti di un confronto autentico e non strumentale sulla validità o meno delle ragioni degli uni degli altri. E’, soprattutto, mancata una forte iniziativa politico-diplomatica per raggiungere la pace. Sono emblematici in questo senso gli incontri tra russi ed ucraini dell’aprile 2022 a Istanbul, ricostruiti da Samuel Charap e Sergey Radchenko in un articolo, The talks that could have ended the War in Ukraine, pubblicato su “Foreign Affairs” l’8 maggio 2025. Leggendolo, ognuno può trarre conclusioni diverse su chi ha avuto maggiore responsabilità in quel fallimento ed è giusto farlo: è essenziale capire chi vuole veramente la pace e chi no. Ma, sotto il profilo storico, l’articolo aiuta a comprendere che non si pervenne ad alcun risultato a causa di una serie di elementi diversi e in seguito a scelte o omissioni di molti attori differenti. In altre parole, un uso più convinto degli strumenti “tradizionali”, ereditato dal secolo scorso, per gestire i conflitti avrebbe portato probabilmente a un esito diverso.

Sono mancate infatti una volontà politica forte e una capacità effettiva da parte di molti protagonisti – grandi o piccoli, diretti o indiretti ecc. – di affrontare congiuntamente ostacoli e problemi fino a rimuoverli. Ed è significativo che – in un contesto internazionale profondamente cambiato – la prospettiva della pace sia stata rilanciata attraverso contatti diretti tra russi e ucraini proprio ad Istanbul, quasi si trattasse di riprendere un’iniziativa rimasta in sospeso per tre lunghissimi anni. Sembra insomma di tornare al punto di partenza ma dopo migliaia di vittime, enormi distruzioni, terribili atrocità. Per colpa anche del “pensiero unico” sull’inevitabilità della guerra e dei molti che hanno interesse ad alimentare tale pensiero.