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Il silenzio su Lenin a cent’anni dalla sua morte


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“Il problema diventa quello della vitalità del marxismo, del suo essere o non essere la interpretazione più sicura e profonda della natura e della storia, della possibilità che esso all’intuizione geniale dell’uomo politico dia anche un metodo infallibile, uno strumento di estrema precisione per esplorare il futuro, per prevedere gli avvenimenti di massa, per dirigerli e quindi padroneggiarli”

Antonio Gramsci, Capo, marzo 1924

Con queste parole Gramsci propone il ritratto di Lenin poche settimane dopo la sua morte (il 21 gennaio 1924; esattamente cento anni fa).

Ci sono molte cose in quel testo. Soprattutto, c’è la percezione ancora informe – ma poi sempre più articolata nei suoi Quaderni del carcere – che riflettere su Lenin e la rivoluzione non è misurare la fedeltà o meno a un dettato teorico, ma misurarsi con la politica. Il problema, dunque, non era «ripetere», bensì «creare» politica.

È un’intuizione preziosa e, al netto della sintonia con il programma di Lenin, era il profilo del pensare politica secondo lo stesso Lenin. Bene la fedeltà alla dottrina, dunque, ma poi bisognava fare politica.

C’è un grande silenzio su Lenin. E il centenario della sua morte rischia di passare in un silenzio tanto imbarazzante, quanto imbarazzato. Forse perché l’immagine più diffusa è quella di tornare a parlare di una scommessa perduta con la storia. Ci tornerò tra poco.

Prima è bene non dimenticare che ripensare o rileggere oggi Lenin – accanto a un percorso imprescindibile che, ridotto all’osso, consiste nel prendere la misura dei fatti (e la misura non può che essere tragica, visti gli esiti) – uno dei temi che favoriscono quel mito è l’investimento su quello dell’autodeterminazione dei popoli, tema che riguarda come soggetti, a lungo marginalizzati, ridotti a provincie di sistemi imperiali, siano stati spesso riferimento secondario del pensiero marxista (basterebbe tornare a riconsiderare la suddivisione tra popoli con storia e “poli senza storia” che propone Engels).

Lenin non era solo né l’unico in quel tempo (per esempio: Otto Bauer, Rosa Luxemburg, Kautsky dissero e scrissero cose significative su quella questione). Un profilo che in parte è ripensato nel dicembre 1922, quando è approvata la nascita (il 30 dicembre 1922) dell’unione delle Repubbliche socialiste sovietiche della Russia, dell’Ucraina, della Russia Bianca e della Transcaucasia in uno stato federato plurinazionale. È l’atto che sancisce la nuova denominazione della realtà russa da R.S.F.S.R.  (Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa) a U.R.S.S.

Un passaggio che è bene non dimenticare non per trovare delle attenuanti, ma per non avere una dimensione fondamentalista della politica (senza per questo, di nuovo, cadere nell’altro mito: quello, per intenderci di «ha fatto anche cose buone»).

Quel dato che per certi aspetti segna un tema di forte attrazione verso la proposta di Lenin anche intorno al 1917 segna anche l’attesa di ciò che da quell’esperienza poteva scaturire (questo è il profilo delle pagine che John Reed scrive nel suo I dieci giorni che sconvolsero il mondo tanto da superare in parte gli scetticismi di quella parte di pensiero e di mondo alternativi  rappresentati dalla controcultura americana e dal sindacalismo rivoluzionario, dall’anarco-sindacalismo, ma anche da espressioni del mondo socialdemocratico europeo –da Pierre Monatte a Rosa Luxemburg – o da intellettuali lontani dalla tradizione marxista, per esempio Bertrand Russell.

Con Rosa Luxemburg Lenin ha avuto più di uno scontro negli anni della II Internazionale (quello scontro si rinnoverà nel 1918 al momento della soppressione dell’ Assemblea costituente)  come è riscontrabile nelle carte del Bureau socialiste Internationale negli anni 1905-1914 presenti nel patrimonio librario e archivistico di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli).

Quella convergenza si rompe sulla scommessa rappresentata dalla sfida politica dall’esperimento avviato con il 1917, che non è riducibile alla presa del Palazzo d’inverno. 1917 significa infatti anche proposta del Governo provvisorio. Ovvero: liberare i prigionieri politici, dare libertà di stampa e di parola, favorire la formazione o rinascita di partiti, preparare e fare elezioni a suffragio universale, affidare il governo ad un’Assemblea costituente elettiva.

La strada intrapresa da Lenin (e dunque la sua scommessa politica) è presto detta: Lenin significa Rivoluzione d’ottobre, rapida trasformazione di una situazione politica da teatro di un confronto finalmente aperto rispetto all’autocrazia zarista in cui improvvisamente molte forse spensano di avere diritto di parola nello spazio pubblico, a terreno in cui gli spazi si restringono molto velocemente fino all’ultima scena della guerra civile che si svolge a Kronstadt nel marzo 1921, quando il partito si fa fortezza.

Quel luogo e quella data sono in qualche modo simbolici.

L’Armata rossa rivolge le armi contro gli insorti che in gran parte si ispirano a una visione libertaria che approva (1 marzo 1921) una risoluzione in 15 punti da proporre al governo bolscevico. Essa rilevava che i soviet non rappresentavano più gli interessi dei lavoratori e quindi andavano rieletti; sosteneva la necessità di aumentare il grado di partecipazione nella nuova società; infine metteva in discussione la politica economica del governo. Il giorno seguente i marinai si ammutinarono e formarono un comitato provvisorio. L’insurrezione viene sconfitta e molti degli insorti sono uccisi dall’Armata rossa.

Lì si sostanzia un divorzio definitivo tra la componente bolscevica e le altre tendenze politiche della sinistra politica. Non solo in Russia.

La malattia e poi la rapida morte di Lenin nel gennaio 1924 nonché il conflitto per la successione che alla fine premia Stalin è segnato da un esito la cui prima tappa essenziale non è espressa agli eredi, ma è decisa e sostenuta da un Lenin ancora nel pieno delle forze (la malattia lo colpisce poco più di un anno dopo nella primavera del 1922).

Dunque, fare i conti a cento anni dalla morte significa tornare a riflettere su quel momento, ma anche almeno su due altre questioni che Gramsci non mancava di sottolineare.

La prima: quella svolta è segnata solo da un atto di necessità, tratto che non distinguerebbe dallo spessore della politica dei rivoluzionari da qualsiasi altra idea di politica (liberali, conservatori, democratici; oppure tradizionalisti o innovativi).

La seconda: la guerra è quella condizione che rende possibile il processo trasformativo della rivoluzione?

Rispetto alla prima: il tema è quanto spazio, quale legittimità, e quali garanzie un governo dei rivoluzionari garantisce ai propri oppositori? Il tema non nasce intorno a Kronstadt, quel tema è già significativo nel marzo 1918, quando viene sciolta l’assemblea costituente perché non si accettano le opposizioni.

Un tema che Rosa Luxemburg, già nell’estate 1918, propone alla discussione pubblica e a cui tutta la parte soprattutto americana che riguarda gli IWW, ma anche i movimenti che hanno espresso le esperienze consigliari e delle forme di partecipazione dal basso in Gran Bretagna, Francia, Germania, Paesi Bassi,  che hanno lontane o vicine ascendenze sindacal-rivoluzionarie, anarchiche, ma anche socialdemocratiche, pongono come unità di misura per giudicare se quella in Russia sia un’esperienza che ha o no la libertà a suo fondamento. La risposta è negativa.

Rispetto alla seconda: il nesso guerra/rivoluzione con la chiusura della guerra civile e la fine dell’ondata di rivolta postbellica inizia a prendere altre piste, anche con significativi passaggi di sensibilità dalla sinistra alla destra (nel caso italiano il fenomeno più evidente è rappresentato da Nicola Bombacci, il «Lenin italiano»).

La svolta di tipo settario proposta dal profilo Amadeo Bordiga alimenterà solo quelle frange culturaliste del marxismo che non avranno peso nella costruzione di un rinnovato paradigma culturale.

Tutto il profilo dissidente che sopravviverà a quella crisi da Bertrand Russell a Victor Serge e che si misurerà culturalmente, prima ancora che politicamente, con l’eredità di Lenin da Maxime Rodinson a Eic J.Hobsbawm a Pierre Vidal-Naquet, non si ritroverà nelle parole commosse che Majakovskij compone in morte di Lenin nel suo Lenin quando scrive:

“Lenin si ergeva contro il nemico/più duro del ferro, ma col compagno era dolce/ come una materna carezza. Le nostre debolezze erano le sue debolezze, come noi superava le stesse malattie/ come noi che diciamo: «un biliardo mi esercita l’occhio», egli apprezzava il giuoco degli scacchi, il giuoco degli strateghi/ E dagli scacchi/ volgendosi contro il nemico di classe/ mutando in uomini le pedine/ egli fondò l’umanissima dittatura operaia/ sopra la torre carceraria del capitaIe”.

Boris Pasternàk, nella sua Autobiografia, proprio riferendosi a Majakovski scrive: “Non mi dicono nulla queste ricette goffamente rimate, questa ricercata vuotaggine, questi luoghi comuni e le trite verità formulate in maniera così artificiosa, confusa e piatta”.

Il tema era ed è trovare altre strade; non coniugare necessariamente guerra e rivoluzione, connettere possibilità di rinnovamento a movimento, impegno, nuovo patto di futuro.

Una piattaforma che chiede di capire non solo cosa non ha funzionato, ma quali ingredienti vadano coltivati per rendere possibile un domani condiviso.

Lenin ci aiuta per gli errori, per la insistenza, più che sulla ricetta.

Quella va tutta riscritta.

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