Con fotografie scattate dell’autore
Mostar è una città piena di ponti, ne sono stati ricostruiti sette dei dieci distrutti durante la guerra, ma pochi ancora li attraversano: a est vivono i bosgnacchi, a ovest i croati. Prima della guerra Mostar aveva il numero più elevato di matrimoni misti dell’intera Jugoslavia. Il conflitto ha tracciato linee di confine dolorose anche all’interno delle famiglie.
Lo smarrimento, raccontato vent’anni fa dal grande scrittore Predrag Matvejević, autore del prezioso Breviario mediterraneo morto a Zagabria nel 2017, al ritorno nell’amata terra natia, è lo stesso che provano ancora oggi i cittadini che non hanno mai abbandonato Mostar. Si orientano a fatica nella topografia interiore, creatasi nell’infanzia, di una città che progressivamente cancella il passato di vita condivisa. Alla fine del conflitto i documenti del catasto sono stati in larga parte distrutti per riscrivere la storia, la geografia urbana e la toponomastica: i nomi delle vie e delle piazze sono stati cambiati in base alla spartizione etnica della municipalità. Molti muri mostrano ancora le crepe, sono squarciati, come se fossero il riverbero volontario di ferite non suturabili.
Esattamente trent’anni fa nella devastazione delle guerre jugoslave, il crimine della distruzione con le cannonate dell’artiglieria croato-bosniaca del Ponte Vecchio di Mostar, che unisce le due rive del fiume Neretva, rappresenta una delle ferite umane e culturali più efferate con un’eco che continua a propagarsi. A Mostar nessuno ha dimenticato il dramma del 9 novembre 1993. Ognuno rievoca la propria memoria di quel momento. Durante la guerra, pur gravemente danneggiato, costituiva l’ultimo collegamento fra il settore musulmano della città e quello croato dall’altra parte del fiume.
All’indomani dell’abbattimento del ponte, meraviglia dell’architettura ottomana costruita nel 1566 dall’architetto Hajrudin su mandato di Solimano il Magnifico, la cronaca del quotidiano Vjesnik diede la misura dell’impatto a venire di tale barbarie: «In Bosnia da lungo tempo tacciono i molti minareti, i campanili e i luoghi di preghiera. Con la distruzione di questo ponte, però, il male ha trionfato; ora ogni pensiero di sopravvivenza di una Bosnia multiculturale appare privo di senso. Il ponte, colpito a morte, è un monumento funebre su due sponde, che si allontanano sempre più…».
Matvejević
Di madre croata e padre ucraino, espressione massima della composizione pluriculturale della propria terra, è stato un avversario tenace di quella forma di fascismo che è il nazionalismo post-jugoslavo. Ha sempre rifiutato il revisionismo storico attuato da culture politiche artificiose. La cifra dell’identità di Matvejević era l’apertura al mondo. Formatosi nella Sarajevo crocevia di religioni e culture, con la sua penna ha sfidato satrapi come Milošević e Tuđman che, nel vuoto politico europeo, hanno portato all’autodistruzione l’ex Jugoslavia. Matvejević nacque in una casa a duecento metri dal Ponte Vecchio attorno al quale si tramandava, e continua a sopravvivere, il mito dei tuffatori che si lanciano nelle acque del fiume a volo di rondine.
Lo Stari most era un monumento vivente e vitale: «Il Ponte Vecchio era l’orgoglio della città finché Mostar era vera città – ricordava Matvejević –. Da tempo non abbiamo più né l’uno né l’altra, siamo stati privati di noi stessi. In esso era immutata la memoria collettiva dei nostri avi; era il simbolo di generazioni. Non allacciava soltanto due sponde; su quel ponte l’Oriente e l’Occidente si stringevano la mano».
È difficile riparare le cose e in alcuni casi sono perse per sempre. John Yarwood, architetto e direttore della ricostruzione della città per conto dell’European Administration of Mostar (EUAM), ammise: «Gli edifici sono stati ricostruiti anche rapidamente a differenza della vita della città. In due anni e mezzo l’EUAM non è riuscita a gettare le fondamenta per un’amministrazione pubblica funzionante, più importante della corsa alle prime elezioni nel 1996».
Nel 1998 Matvejević scriveva e si domandava: «Nell’autunno scorso mi sono diretto pieno di speranza alla volta di Mostar. Dalla mia città natale invece sono tornato in Italia con i brividi addosso. Il dopoguerra sembrava duro quanto la guerra stessa. Nel giorno in cui è stata recuperata dalla Neretva la parte centrale dell’arco del Ponte Vecchio, ho assistito all’avvenimento con una strana emozione. Abbiamo visto gli ingegneri ungheresi che sollevavano con una grande gru, su una zattera, il troncone dello Stari Most che non univa solo le due sponde di questa città, ma altresì le vie dell’Oriente e dell’Occidente. Tornerà a farlo?».
Don’t forget 1993
A Mostar la risposta rimane sospesa, perché i nodi del dopoguerra a cominciare dai limiti dell’accordo di pace di Dayton non sono mai stati realmente affrontati. Come spiega Dzenana Dedić, responsabile della Local Democracy Agency (LDA) e figura di raccordo fondamentale con l’Unione Europea durante la ricostruzione del dopoguerra: «Il nostro problema principale è l’accordo di Dayton. È stato fondamentale per il disarmo e per fermare le uccisioni, ma non promuove una visione comune, istituzionalizzando de facto un’ingestibile divisione etnica. Mostar esprime in scala ridotta tutti i travagli della Bosnia ed Erzegovina. I processi democratici sono sospesi, tutto è controllato dalle leadership dei partiti, privi di democrazia interna, gli stessi che hanno condotto la guerra».
Gli uffici spogli della LDA distano una breve camminata dal Ponte Vecchio. Il suo attraversamento è carico di suggestioni. Sulle mura di Mostar ricorre una scritta: “Don’t forget”, non dimenticare.
È tuttora difficile non sovrapporre il carico simbolico della distruzione alla ricostruzione forse più ricercata e spinta dalla comunità internazionale, mentre la popolazione appare alle prese ancora con l’elaborazione del lutto del crollo di un simbolo che aveva resistito a secoli di storia complessa.
Il ponte si colloca nell’area centrale di Mostar ed è parte del patrimonio culturale che forma la ricchezza della città ed è stratificato, inglobando differenti influenze artistiche e architettoniche. Tra il 1992 e il 1995 gran parte di esso fu distrutto fino all’inattesa ferocia del 9 novembre 1993. Nella disperazione in cui versavano i civili il crollo dello Stari Most fu un ulteriore profondissimo shock psicologico: sembrò svanire ogni argine alla violenza ed era la perdita della cosa più amata. L’azione criminale delle unità regolari dell’Esercito della Repubblica di Croazia e delle milizie croato-bosniache del Consiglio di difesa croato (HVO) con il generale croato Slobodan Praljak, riconosciuto insieme ad altri vertici militari dal tribunale dell’Aja quale responsabile della distruzione del ponte, riuscì nell’intento di dissolvere la radice di quel legame urbano.
Dal 1994 al 1996 il socialdemocratico tedesco Hans Koschnick, in qualità di commissario dell’EUAM, s’impegnò per riunire la città. Rischiò il linciaggio da parte di estremisti croati, non soddisfatti delle delimitazioni stabilite tra est e ovest. In quel periodo, in ossequio al mandato dell’Unione Europea, intendeva ricreare un’area della città con i servizi di pubblica utilità che non rientrassero nei confini delle municipalità, tre croate e altrettante musulmane, in cui fu suddivisa Mostar. Il distretto era funzionale all’incontro nel cuore del patrimonio culturale mostarino. Negli ultimi due decenni il perimetro di questa zona è stato sempre più rimpicciolito.
Non ha funzionato l’idea di ricercare lo spirito originale della magnifica opera di Hajrudin e del tessuto centrale di Mostar per ricucire il senso di comunità lacerato dalla guerra. Gilles Péqueux, ingegnere responsabile della ricostruzione del Ponte Vecchio che cominciò a prendere sostanza nell’agosto del 1998, argomentò l’intento con queste parole:
«L’aspetto emozionante di quest’opera eretta nel Sedicesimo secolo è l’essere più vicina a una scultura collettiva che a un’opera d’arte classica. Dico scultura collettiva, perché la sua bellezza risiede nel fatto che è un insieme di errori corretti con una mescolanza di procedure orientali e occidentali. Mostar è in qualche modo il luogo dove l’Oriente e l’Occidente si sono tesi la mano. E penso che l’opera sarà compiuta se riusciremo a far lavorare insieme le persone con uno stato dello spirito comune».
La riapertura del Ponte Vecchio
Ciò è avvenuto soltanto parzialmente senza un contesto sociale e politico in grado di reagire all’urbicidio di Mostar. Quando la guerra si è fermata questa ricostruzione era uno dei punti fondamentali nell’agenda politica dell’EUAM: «Quella che definiamo l’eredità culturale intangibile dà l’identità alla città e al contempo è molto importante per il suo impatto sociale – spiega Senada Demirović Habibija, architetta del dipartimento di programmazione urbanistica, impiegata nei progetti di recupero dell’Old Town –. Nel cammino generale di riconciliazione immaginato per Mostar, la rinascita del ponte era uno snodo cruciale. Con questa idea è cominciato il processo di ricostruzione del patrimonio artistico».
L’importanza del risultato era evidente pur nello stato permanente di emergenza: «Il nuovo ponte non doveva essere fine a sé stesso, ma la congiunzione fisica tra ciò che era stato diviso dalla guerra – prosegue Senada –. Lo abbiamo concepito come una porta d’ingresso per ridare vita al cuore pulsante di Mostar. Dobbiamo ammettere che successivamente non è avvenuto quanto sognavamo, ma ha senz’altro riattivato il turismo che è una fonte importante di sostentamento della popolazione». Dopo la riapertura del Ponte Vecchio nel 2004, nell’arco di un anno è stato inserito nella lista dei siti riconosciuti dall’UNESCO come patrimonio universale. È stato il primo monumento a ottenere questo riconoscimento in Bosnia ed Erzegovina:
«L’operazione di ricostruzione del patrimonio culturale a Mostar è la più riuscita direi nell’ex Jugoslavia – osserva Senada –, ma essa non equivale a un’intima riconciliazione».
Trent’anni dopo l’indipendenza della Bosnia e la lacerazione della guerra fratricida, la transizione economica incompiuta dalla realtà jugoslava appare anche nella pianificazione urbanistica. Fino al Novanta Mostar non conosceva un sostanziale sviluppo urbanistico illegale. Oggi l’urbanistica risponde al principio e all’intento politico della divisione della città, dunque nel dopoguerra sono mancati un piano regolatore e un rinnovamento delle infrastrutture: quelle superstiti risalgono in gran parte al periodo prebellico. Per decenni ogni municipalità non ha seguito una pianificazione generale e non ha implementato quella che sarebbe dovuta essere l’area centrale condivisa.
È complesso, se non impossibile, far corrispondere le strategie urbanistiche d’interesse generale con il sistema politico etnonazionalista: «Per quasi dieci anni non abbiamo avuto un consiglio comunale e tutto era bloccato – spiega Senada –. Non posso definire tecnicamente illegali molti dei nuovi edifici, ma non corrispondono ad alcun criterio di piano regolatore. Venendo meno una pianificazione centrale ognuno ha cominciato a costruire sul proprio fronte, ingrossando il corpo della città senza raziocinio. Costruire senza rispettare ciò ci sta ferendo più dei danni della guerra. Nei secoli, di conquista in conquista, non si era mai smarrita l’importanza dell’eredità culturale, artistica e urbanistica. La guerra del 1992-’95 minaccia soprattutto questa eredità».
Camminando per la strade di Mostar, Senada, che vive e lavora sulle mappe, conferma il diffuso senso di disorientamento:
«Talvolta in alcuni luoghi non sento più di trovarmi a casa. Molte immagini della mia infanzia sono irriconoscibili. In un tempo piccolo sono avvenunti stravolgimenti estremi. Non parlo dei molti danneggiamenti provocati dalla guerra, ma dei luoghi sopravvissuti a essa di cui è stata trasformata l’identità».
La ricerca di una cura per la separazione violenta, indotta dalle armi, passa innanzitutto attraverso la riscoperta e valorizzazione del patrimonio culturale che appartiene a tutti. Questa è la sfida del presente e del futuro che attende Mostar: «Spesso questa città è comparata a Belfast e Berlino. Occorre tuttavia ricordare che qui è sempre esistito un terreno comune. La guerra ha strappato il tessuto urbano, la società e ha diviso molte famiglie nel dedalo dei matrimoni misti di una città multiconfessionale. La spinta a stare insieme qui era naturale come lo è stato il tentativo di mettersi alle spalle la tragedia vissuta. Paradossalmente tutto ciò sarebbe dovuto avvenire quando le ferite della guerra erano calde, mentre non è accaduto e non so quanti anni possano volerci ancora in un percorso di pace ormai così freddo, lento, teso e cristallizzato sui rispettivi fronti».
Cosmopolitismo abbattuto
È scomparsa la consapevolezza del cosmopolitismo proprio di epoche passate. È lo stesso destino di Vukovar, altra città martoriata come Mostar, che contava 84.000 abitanti fra croati, serbi, ungheresi, cechi e altri in un nucleo urbano pluriculturale. Il cosmopolitismo è stato il principale nemico da abbattere. Nell’ora della dissoluzione della Jugoslavia i discorsi carichi di odio arrivarono prima del fuoco delle armi. Le parole cariche di odio pronunciate dalle élite politiche, intellettuali, poi sono state moltiplicate e propagate dai media come un incendio. Nessuna guerra sarebbe stata possibile senza la propaganda agitata dagli stessi mezzi di informazione, che trasformarono il vicino di casa in un nemico da eliminare.
Dopo la guerra ogni fazione ha riscritto la propria storia e mancano spazi comuni per la lettura, lo scambio e il dialogo. La scuola su base etnica ha programmi diversi per croati e bosgnacchi ed è divisa dalle elementari fino alle due università. La riunificazione amministrativa di Mostar è soltanto formale dal servizio di raccolta dei rifiuti ai fornitori di acqua.
Leggendo i numeri, potremmo dire che nessuno ha vinto la guerra, tuttavia è stata stravolta la composizione sociale della città. Nel marzo del 1995, quando le armi tacevano da qualche mese, la diplomazia internazionale chiuse in un cassetto il censimento demografico, appaltato ai tecnici del governo svedese, perché era materia politica esplosiva. Secondo l’ultima rilevazione, risalente al 2013, a fronte di circa centomila abitanti, la componente croata cattolica è superiore di non più di mille persone rispetto a quella bosgnacca con una crescita della presenza serba, quasi sparita durante il conflitto. Il censimento nazionale bosniaco del 2013 rispetto a quello del 1991 segnala un calo della popolazione pari al 13%, meno 585.411. A Mostar abitavano oltre centoventimila persone.
I negoziati di Dayton
L’accordo di pace di Dayton sanciva il diritto al ritorno nella terra da cui si era stati estromessi, ma quando si fugge, emigra o si viene cacciati difficilmente si torna indietro. Il 70% degli attuali abitanti di Mostar non era qui prima della guerra. Sono approdati soprattutto dalle aree rurali dell’Erzegovina. «Un nativo di Mostar avrebbe meno difficoltà ad ambientarsi a New York di chi è arrivato qui dopo la guerra – sottolinea Senada –. Da sempre eravamo abituati all’incontro con gli altri. La curiosità di pensare che sull’altra riva del fiume ci sia qualcuno da provare a raggiungere per capire chi è e accorgersi che esiste un terreno comune, comporta una scelta fondamentale. Chi è giunto a Mostar soprattutto dall’Est dell’Erzegovina, sospinto soltanto dal vento della guerra, dopo quasi trent’anni non riesce ad appartenerle. L’espressione più radicale della guerra è questa assenza di dialogo».
Nel 1997 con la spinta degli aiuti internazionali (5.1 miliardi di dollari furono stanziati per il primo programma di ricostruzione, a fronte di danni stimati nell’ordine di 15-20 miliardi con oltre un milione di rifugiati) la Bosnia toccò una crescita pari al 34%, che poi si è progressivamente ridimensionata, 5% all’inizio del secolo, fino alla palude della Grande recessione del 2009. Il reddito pro capite non ha ancora raggiunto il livello anteguerra e un terzo dell’economia è sommersa. Mostar, ormai sostanzialmente deindustrializzata, con l’alto tasso di disoccupazione è l’emblema del contesto bosniaco. Insieme al turismo estivo e alle rimesse di chi ha vissuto la diaspora, non potrebbe fare a meno dei venticinquemila studenti che la popolano.
Pace fredda
Dopo la guerra le persone avvertivano una sorta di adrenalina. Questa volontà di rialzarsi è lentamente appassita nella paralisi di uno Stato incompiuto, se non fallito, e di una pace fredda. Dzenana Dedić, che è nata a Mostar sessant’anni fa, ha affrontato in prima linea tutte queste fasi. Nel 1993 le hanno bruciato la casa, che era situata a pochi passi dall’ufficio della Local Democracy Agency in cui attualmente lavora, ed è stata espulsa nella zona est della città. Ricorda la fila delle macchine che nel 1992 abbandonarono in fretta e furia la città all’arrivo dei carri armati dell’Armata popolare jugoslava. Il vero inferno è stata la cosiddetta seconda guerra di Mostar, nel 1993 quando è deflagrato lo scontro musulmano croato.
«Eravamo affamati, non avevamo vestiti, non avevamo case: nella guerra ho perso ogni cosa – ricorda Dedić –. Non oso pensare quale sarebbe la situazione odierna se noi cittadini non avessimo reagito subito. La gente di Mostar è stata fondamentale per la ricostruzione. C’era energia, voglia di ascoltarsi gli uni con gli altri, nonostante le ferite fossero ancora apertissime. Ogni piccolo passo era in realtà grande. Si respirava un clima positivo: diamoci da fare, ritroviamo una vita. Sono stati investiti molti soldi con la priorità delle case dopo la complessa classificazione dei danni, e anche qui la politica ha cercato di dividere, destinando gli aiuti alle rispettive cerchie d’interesse. Abbiamo ricostruito le nostre case e contemporaneamente, mentre lottavamo per tornare a una vita normale, i politici hanno speculato sulle divisioni. Il sistema dei partiti ha alimentato una struttura così inscalfibile che non sembra esserci strada per spezzarla. Si annidano in ogni entità del Paese, contando sulla sicurezza di una cittadinanza inconsapevole della propria forza e della possibilità di contare».
Le scelte dei giovani
La situazione per i giovani, chi era bambino durante la guerra e chi è nato nell’immediato dopoguerra, non è semplice. Le questioni aperte nel confronto tra genitori e figli sono tante; raccontare la guerra e soprattutto talvolta spiegare le proprie scelte nel conflitto è difficile per gli adulti. Le precedenti generazioni sono frustrate per il naufragio traumatico del proprio mondo, la Jugoslavia, mentre fra i figli il malessere si trasforma in rassegnazione allo status quo. Chi può emigra. I giovani prolungano gli studi il più possibile per l’assenza di lavoro, poi partono e l’effetto non è ammortizzabile per il paese. Chi ha maturato un alto grado di istruzione desidera andarsene.
La scelta del trentacinquenne Jasmin Elezović è andata controcorrente. A differenza della maggior parte dei coetanei Jasmin ha deciso di non emigrare.
«Non lascio la città a chi intende alimentare l’odio e perpetrare il dolore – dice –. Della guerra conservo la capacità che ti dà di riconoscere la felicità, quando si presenta in piccoli frammenti di tregua».
Nei pressi del Ponte Vecchio ha deciso di aprire il Cafè de alma, dove sorseggiare il caffè e ascoltare storie della sua tradizione in Bosnia. Otto mesi prima della deflagrazione della guerra la famiglia di Jasmin aveva aperto una caffetteria, per poi essere costretta ad abbassare la saracinesca. Il padre Ermin mise al riparo i macchinari della bottega, che oggi arredano il locale sognato a lungo dal figlio.
“Jaso” è stato un bambino al tempo della guerra. Ha trascorso mesi senza vedere la luce del sole confinato nel bagno di casa che non era esposto al fuoco dei cecchini. Dice che oggi ognuno cerca di affrontare e convivere con lo stress post traumatico.
Come scriveva Matvejević: «La guerra non ha bisogno di moventi particolari per cominciare e per giustificarsi (per tentare di giustificarsi). A un certo punto si nutre della propria insensatezza e malvagità. Le conseguenze diventano nuove motivazioni, e queste provocano a loro volta nuove conseguenze: il male si rafforza e si conferma col male. Un’alternanza di tal genere non si può arrestare. Simili guerre durano anche dopo che sono state deposte le armi».
Il racconto di “Jaso”
Ogni spiegazione della guerra appare sconveniente. Con il padre Ermin, che ha combattuto, evitano di parlarne:
«Non posso porre questa domanda a mio padre, perché non conosce la risposta. La maggioranza di chi ha combattuto non ti risponderà. La vendetta per l’uccisione di qualche persona cara, ma la vendetta non può essere uno stile di vita. Hanno fatto la guerra per difendere la propria casa, la famiglia, per l’opportunità di sopravvivere. Nel 1995 Mostar era una città di rovine, e si stenta a ritrovarla. La fabbrica della paura non ha chiuso i battenti, foraggiata dalla politica che ha l’interesse a mantenere alta la tensione. Non sapendo risolvere il passato, perdiamo il presente».
Nei suoi racconti “Jaso” fa ampie pause. I suoi silenzi sono quasi un’ombra. Dopo esserci arrampicati sui ruderi della Staklena Banka, una costruzione mai portata a termine, poi utilizzata dai cecchini, m’invita a fotografare Mostar, che appare bellissima, con le nostre ombre che si allungano sullo sfondo.
OKC Abrašević
Proseguendo il cammino lungo la linea del fuoco, Bulevard Narodne Revolucije, il viale della rivoluzione nazionale, dove nel 1993 croati e musulmani si fronteggiarono più violentemente, è stato rivitalizzato un edificio che invece fisicamente non appartiene a nessuno dei due versanti della città e testimonia che riconciliazione non è una parola vuota. L’atmosfera del centro culturale giovanile OKC Abrašević è accogliente.
Si colloca esattamente nel mezzo del muro invisibile che separa Mostar. Si tratta dell’unico caso in tutta l’ex Jugoslavia di luogo, che si autofinanzia, restituito alla sua funzione pubblica originale, dopo averlo sottratto a un’operazione immobiliare. È la principale sala concerti della città con band che giungono da tutto il mondo, è un centro di vita culturale condivisa e discussione politica per i giovani delle due sponde della Neretva.
«L’OKC Abrašević è l’ottavo ponte di Mostar che davvero la riunisce – sottolinea il giovane Vladimir Corić –. O almeno vorremmo essere questo. Amiamo la nostra terra, ma non il Paese che è nato sulle macerie della guerra. La burocrazia, la corruzione e la disorganizzazione dello Stato sono innegabili. La riconciliazione si realizza solo sul campo, ricreando un tessuto e una produzione culturale condivisa. A livello non soltanto simbolico la nostra posizione è davvero importante. Siamo equidistanti tra l’est e l’ovest».
Nella Terza Guerra Mondiale a pezzi, anzitempo diagnosticata da Papa Francesco, la Bosnia è uscita dal cono di attenzione della comunità internazionale con il lentissimo e accidentato processo d’integrazione europeo. All’interno del paese si percepisce questa sensazione di abbandono. Ma la lezione della Bosnia è sotto gli occhi di tutti con i frutti avvelenati del nazionalismo e della guerra come unica risposta alla difficoltà della coesistenza. Sarajevo guarda all’Europa che è ancora una volta distante nella crisi strutturale, profonda e pieni di rischi in cui la Bosnia è avvolta.