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Il legislatore di fronte alle trasformazioni sociali: tante domande


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1974-2024: cinquant’anni dal referendum sul divorzio
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Ragionare sul rapporto tra legislatore e società

Riflettere sul recepimento delle trasformazioni sociali da parte del legislatore è un’impresa tutt’altro che banale. Implica, infatti, un ragionamento sul rapporto tra legislatore e società, ossia su una questione che negli ultimi decenni è divenuta particolarmente spinosa.

E infatti: cosa altro può voler dire interrogarsi su quei recepimenti se non soffermarsi su un topos del diritto pubblico quale è il rapporto tra autorità e libertà e quindi, in ultima istanza, farsi delle domande sullo stato di salute della democrazia?

Se ciò non bastasse a rendere tutt’altro che agevole svolgere qualche considerazione che sia breve, si aggiunge il disagio che si prova nel confrontarsi con alcuni termini che non esiterei a definire ormai fuzzy; tra questi va annoverata sicuramente la parola “società”: sinonimo di popolo quale elemento costitutivo dello Stato? Di elettorato, con ciò sottolineando l’elemento procedurale del rapporto di rappresentanza? Oppure di nazione, assecondando una china che però, devo essere sincera, mi rende inquieta?

Vivere in tempi incerti

Inoltre, va detto che viviamo in tempi incerti in cui la sfida del costituzionalismo democratico fondato su un’idea di pluralismo ad alta intensità fa i conti con i limiti di un’organizzazione politica incapace di abbandonare la cassetta degli attrezzi del modello dello Stato-nazione, risultando del tutto inadatta a svolgere i compiti cui è chiamata, in primo luogo per quel che concerne la funzione di gestione del conflitto che, lungi dall’essere una patologia, costituisce il sale della democrazia costituzionale.

La garanzia e la promozione del pluralismo come presupposto alla tutela delle minoranze e al contenimento del potere ci obbligano ad ampliare ulteriormente il nostro orizzonte.

Dunque: quando parliamo di recepimento delle trasformazioni sociali in ambito legislativo stiamo ragionando di un atto contro-maggioritario che deve accantonare la volontà della maggioranza (che, si badi bene, costituisce la base giuridica dell’organo decidente, la sua ragione d’essere) oppure ci riferiamo al mero consolidamento sul piano normativo di tendenze politico-elettorali anche quando queste appaiono reazionarie?

È chiaro che in poche righe è più facile formulare domande che dare risposte. Ma a volte anche le domande sono fonte di riflessione.

La storia dell’umanità è una storia di progressi?

Vale allora la pena ricordare che il nostro attuale modo di ragionare sui diritti è intriso di buonismo, figlio della convinzione che, con battute d’arresto più o meno lunghe e attraverso percorsi più o meno tortuosi, la storia dell’umanità sia una storia di progressi. Lungi da me voler confutare qui una simile idea. Mi preme piuttosto sottolineare come questa convinzione, al netto della sua soggettività e natura eurocentrica, possa essere vera, forse, solo sul lungo periodo, ovvero osservando la storia attraverso quella linea capace di far coincidere tempo e progresso, tralasciando le fasi di involuzione, che in questa prospettiva appaiono come incidenti dai quali l’umanità ha saputo riaversi.

Non di meno va detto che questo sguardo ottimista, a poco serve sulla breve distanza, al momento di affrontare quelle fasi di stallo che pure sono parte di questo percorso.

La storia da sola non insegna e non costruisce il presente

È molto pericoloso coltivare l’idea che la storia della conquista dei diritti sia il risultato di un inarrestabile e spontaneo progresso: essa alimenta una certa pigrizia, nell’infondata convinzione che le conquiste recepite nelle nostre costituzioni democratiche, frutto degli orrori del Novecento, riscatto umano da quegli orrori, rappresentino un punto fermo non più revocabile in dubbio. La storia da sola non insegna e non costruisce il presente.

Ci si dimentica che la vita politica è lotta, disputa per la conquista di uno spazio di legittimazione e per il suo mantenimento. Anche quelli che oggi ci appaiono irenici presupposti condivisi, un tempo furono arena di scontro e in qualche parte del mondo ancora lo sono.

Ciò significa che nella storia dei diritti i momenti di affermazione di una libertà si alternano a quelli di repressione: il fatto che alla fine su una sintetica linea del tempo la posizione progressista sembri prevalere non significa né che questa affermazione sia espressione di una naturale condivisione sociale recepita dal legislatore, né che tale affermazione fosse scontata.

Il referendum registra davvero un cambio di rotta nell’idem sentire della società?

Cinquant’anni fa si celebrava il Referendum sulla legge in tema di divorzio. L’esito referendario fu certamente sigillo di un recepimento delle trasformazioni sociali da parte del legislatore, affiancato negli anni da tante altre azioni normative volte a scardinare un’odiosa disparità tra uomini e donne che dal punto di vista costituzionale non poteva più essere accettata.

Ma lo fu davvero? Il referendum, quella legge e quelle successive registrano davvero un cambio di rotta nell’idem sentire della società o rappresentano solo il necessario formale adeguamento dell’impianto legislativo alla Costituzione, cui non seguì una profonda presa di coscienza del cambiamento? Vista l’enorme difficoltà che ancora oggi incontrano le donne a raggiungere quell’autonomia economica e sociale che potrebbe davvero dare concretezza alla legislazione sul divorzio e in tema di parità è difficile rispondere senza qualche remora.

Uscire da una prospettiva patriarcale

I dibattiti nei quali l’opinione pubblica è attualmente immersa dimostrano che ci sbaglieremmo nel pensare che siamo di fronte a posizioni e diritti assodati, su cui non si torna indietro. Pare invece che la società continui a far fatica a uscire da una prospettiva profondamente patriarcale: quei recepimenti che da alcuni vengono descritti come progresso, per altri sono stati un errore legislativo che presto o tardi dovrà essere riparato.

Quando si mette in dubbio la libertà

Se il compito del legislatore è davvero quello di far proprie le trasformazioni sociali, se davvero questo è quello che abbiamo preteso in passato e pretendiamo oggi di fronte alle grandi rivendicazioni del pluralismo, quali difese possiamo attivare nel momento in cui quei cambiamenti assunti in nome del “popolo sovrano” mettono in dubbio alcune delle libertà che consideriamo acquisite?

Sono profondamente convinta che quella dei diritti è una storia ancora tutta da scrivere. Ma si sbaglia chi crede che sia una storia che deve scrivere il legislatore. È una storia che si scrive prima di tutto nella società. Il legislatore può tutt’al più opporre un giudizio di costituzionalità (: e ahimè le recenti vicende della Corte suprema degli Stati Uniti ci mettono in guardia sulla duttilità del reasoning del giudice delle leggi).

Salvaguardare l’essenza della democrazia costituzionale

La partita si gioca nelle dinamiche sociali della democrazia, nell’attivazione del conflitto e non nella sua neutralizzazione. Nell’accettazione della complessità sociale come fatto irriducibile. Nella consapevolezza che ogni volta che il legislatore recepisce una trasformazione sociale sta agendo per il tutto, rispondendo alla volontà di una parte. Sono le regole della democrazia: alla minoranza di oggi non resta che divenire maggioranza domani.

Il punto, allora, non è se la trasformazione della società sarà assimilata dal legislatore, bensì se la stessa società sarà in grado di assimilare quel cambiamento e di salvaguardare l’essenza della democrazia costituzionale che è il pluralismo. Diversamente qualunque legge è destinata a essere manipolata, neutralizzando la sua potenzialità progressista.

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