C’è stato un tempo in cui le associazioni culturali con un’identità politica profonda si assumevano un ruolo pubblico di formazione, approfondimento e ausilio alla costruzione della politica pubblica. Non erano né consiglieri del principe, né avevano intenzione di sostituire la politica. Il loro fine era lavorare per accrescere la sensibilità politica di un’opinione pubblica stimolandola ad “uscire di casa” e vivere la politica non per trovare vantaggio personale, ma per contribuire a costruire qualcosa che promuovesse il miglioramento di vita del maggior numero di persone possibile.
Il riformismo di Pedrazzi
Nel 2001 Luigi Pedrazzi, storica figura dell’associazione “Il Mulino”, sul numero 5 de “il Mulino” pubblica un intervento dal titolo Riformismo (leggibile qui).
Quel testo vale la pena riprenderlo in mano, per capire quale sia il vuoto oggi della politica.
Pedrazzi sottolineava due aspetti che facevano del riformismo non un fatto tecnico.
Da una parte, scrive, “Il riformismo è una reale «tendenza» politica solo quando può e sa confrontarsi positivamente con il problema politico centrale, che è quello di proporsi di governare, in competizione – dentro una società democratica e costituzionale – con tendenze politiche diverse.
Dall’altra, distingue tra due riformismi.
Il primo risponde a un fine: “obiettivo collettivo, e quindi anche un metodo partecipato e sostenuto da cittadini così numerosi da essere o maggioranza in atto, o possibile alternativa di governo”
Il secondo è “solo un orientamento etico, una propensione culturale di gruppi ristretti, di pensatori e studiosi: importante, forse anche influente nei tempi lunghi, ma sotto la soglia della rilevanza e delle responsabilità politiche, che sono cose che si svolgono tutte in tempi brevi, con un consumo immediato di risorse sociali”.
Riformismo: speranze passate, realtà attuali
È importante questa distinzione e per quanto nella sua riflessione egli insistesse a dare nuovo slancio al primo dei due aspetti, che indubitabilmente era quello che più gli stava a cuore, è significativo che a dieci anni di distanza, tornasse mestamente a riflettere su un ciclo nuovo che coglieva come controtendenza a quella auspicata.
“I rischi che il Paese sta correndo – scrive nel 2010, il testo è leggibile qui – risiedono nella tendenziale trasformazione della democrazia in un regime a legittimazione popolare passiva, e della cittadinanza in un insieme di individui isolati, o collegati solo corporativamente, orientati nel pensiero e nell’azione all’esclusivo interesse particolare, all’orizzonte privato. Specularmente, si afferma la tendenza a individuare il legame sociale in un generico populismo spesso ostile e estraneo alle istituzioni repubblicane, o in arbitrarie affermazioni d’identità collettiva, improntate a generici istinti sentimentali e compassionevoli”.
Il che voleva dire da una parte il fallimento di un progetto e, dall’altra, il sorgere di una nuova figura di intellettuale. Per quanto riguarda il progetto quel declino non parla solo delle “magnifiche sorti” de “il Mulino”. Qualsiasi rivista che non voglia essere cenacolo d’ancien régime – ovvero gruppo di colti che si riunisce periodicamente in un «salotto buono» – ma voglia caricarsi della funzione di contribuire alla definizione di un profilo riformista e riformatore, non può non sapere che la domanda e l’inquietudine di Pedrazzi parla anche di lei e a lei.
La nuova figura di intellettuale, una delle caratteristiche della nostra quotidianità politica è la nascita del brontolone, che per la maggior parte del tempo dedica energie a promuovere se stesso. Il suon refrain è l’invocazione alla patria di mettersi nelle sue mani per salvarsi e risollevarsi.
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