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L’Europa che non c’è


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Lo storico e autore Sante Lesti, nel suo libro “Il mito delle radici cristiane dell’Europa – Dalla rivoluzione francese ai giorni nostri”, uscito in queste settimane in libreria, sottolinea come il tema dell’identità cristiana dell’Europa sia un profilo non solo che descrive le origini, ma anche chi siamo e, soprattutto, non possiamo non essere. Il libro riflette, dunque, su che cosa non possiamo rinunciare a essere. Pena la scomparsa. 

È un tema interessante che obbliga a riprendere con un profilo diverso e rinnovato la riflessione sull’Europa e sulla carta federalista come ipotesi di futuro. Inoltre, ci obbliga a far i conti con un mito espresso dalla narrazione del progetto europeista, attuale nel dibattito identitario che fa capolino nella campagna elettorale delle elezioni europee alle porte.

Considerando l’ideologizzazione della religione da parte della politica, l’aspetto identitario si riverbera in modo negativo su una società europea in cambiamento e in cerca di un nuovo assetto.  

Le radici dell’identità 

Nei due secoli abbondanti della loro storia, le radici cristiane dell’Europa, dapprima affermazione che risponde alla crisi e al crollo dell’Europa delle dinastie con la Rivoluzione francese (come scrive Novalis nel suo La cristianità o l’Europa), si sono riproposte come identità ogni qualvolta l’Europa si sia chiesta chi fosse, quali fossero i suoi confini e dove stesse andando. 

Quella domanda è tornata più volte nel corso del ‘900. Lesti individua tre codici in cui l’Europa si è declinata come cristianità nel linguaggio teologico, che si proponeva come colonna vertebrale al linguaggio politico. 

Un primo codice (che Lesti denomina come “radici 1.0”) segnato dai papati di Benedetto XV e poi di Pio XII (1915-1958) che predicano un ritorno alla chiesa postconciliare trentina del XVI secolo. 

Un secondo codice (che Lesti denomina come “radici 2.0”) rappresentato dai papati di Giovanni XXIII e poi di Paolo VI (1958-1978) che accompagnano e provano a dare sistematicità ai temi avviati con il Concilio Vaticano II. Una delle conseguenze, sottolinea Lesti, è la scomparsa dal lessico della Chiesa dell’espressione «società cristiana» sostituita da «progresso cristiano». Quella sostituzione testimonia secondo Lesti, la convinzione che il cristianesimo fornisca le categorie e abbia rinunciato ad aspirare e definire una società chiusa. 

Un terzo codice (che Lesti denomina “radici 3.0”) rappresentato dai pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI (1978-2013) in cui la cristianità si propone come modello di civiltà la questione del confronto nel tempo della crisi delle ideologie arretrate mentre avanza la proposta della cristianità come civiltà. 

In questo quadro il pontificato avviato con la salita al soglio pontificio di Jorge Maria Bergoglio, ovvero Francesco I, assume caratteristiche, talora più incerte, ma votate a ridefinire un riferimento universalistico non ripiegato solo sul vocabolario cristiano e assumendo le parole chiave delle sfide che stanno di fronte a noi come la necessità di declinare un progetto inclusivo.

Ventotene e il progetto europeo 

Dunque una dimensione molto combattuta che rimette in discussione quello che a lungo è sembrato essere il paradigma europeo la cui piattaforma, per molti, si troverebbe nel Manifesto di Ventotene. 

Quella proposta, nei propositi dei federalisti si presentava come la replica alla crisi della democrazia europea e e come scommessa di futuro da parte del campo largo antifascista, intorno a tre temi: 

In primo luogo, si doveva registrare il fallimento di quelle premesse fideistiche che, tanto nei partiti progressisti quanto in quelli socialisti rivoluzionari, guardavano alla soluzione internazionalista 

Strettamente correlato a questo primo dato ve n’era un secondo, concernente le aporie della politica nazionale in materia di accordi diplomatici, ovvero una configurazione dell’Europa che non doveva sosttostare al profilo delle alleanze costruite per vincere la guerra e dunque libera dal vincolo sia filo-americano che filo-sovietico. 

Infine, un terzo fattore doveva apparire nell’immediato dopoguerra come monito al quale riallacciare il discorso su un superamento sostanziale di quelle aporie che avevano di fatto generato il lungo trentennio di guerra tra 1914 e 1945. 

Il quadro in questa riflessione dunque prefigura Europa come un salto nel futuro fondato sulla necessità di rispondere a una crisi culturale, politica, identitaria investendo su una nuova risorsa e su una prospettiva assolutamente estranea al paradigma culturale che aveva prodotto in precedenza i nazionalismi. 

Era vero, ma il tema non era solo, già allora, rispondere ai nazionalismi, ma scavare nel processo culturale formativo dell’Europa contemporanea, e, soprattutto, nelle sfide a cui l’esperienza europea aveva risposto non solo con affanno, ma anche nella sostanza declassificandole e derubricandole fin dalle origini.

Il paradigma “non inclusivo” della Rivoluzione francese 

La scena fondativa riguarda il percorso della Rivoluzione francese giustamente rivendicata, allora, e poi di nuovo negli anni ’80 del ‘900 come il luogo originario degli statuti della libertà e della cittadinanza a partire dal processo che segna il passaggio simbolico dall’Ancien régime alla moderna libertà. Il paradigma della cittadinanza non sarebbe per questo definito dalla Rivoluzione francese e dal lessico inaugurato e varato dalla Convenzione (1792-1795). Il profilo di quella discussione, volta a definire chi sia cittadino, una volta deposta la monarchia e proclamata la repubblica -infatti non indica chiunque, ma solo coloro che si ritiene di poter “nazionalizzare“, culturalmente. 

Il profilo che emerge da quella discussione e da quella deliberazione è la definizione di una misura selettiva e non inclusiva della cittadinanza.   

Su quel tema su cui ha richiamato l’attenzione Hannah Arendt distinguendo tra diritti dell’uomo e diritti del cittadino nella terza parte del suo Origini del totalitarismo  e riprendendo le sue riflessioni che enuncia per la prima volta in Noi rifugiati. Un tema su cui in anni più vicini alla svolta di millennio hanno richiamato l’attenzione Edward Said, Nathan Wachtel Tzevetan Todrov, tra gli altri. 

 

Tuttavia la condizione di straniero – in cui i processi di inclusione si condensano in quelli di nazionalizzazione e di assorbimento – non è da sola capace di esaurire l’intero arco di questioni. Perché inclusione e nazionalizzazione si possano stabilire – e dunque si possa produrre cittadinanza – non è sufficiente definire una pratica sociale o riconoscere un diritto.  

Cittadinanza e rigenerazione 

La cittadinanza si fonda su un percorso in cui preliminare diviene la rigenerazione (come si dice in gergo settecentesco) in cui la rottura con il passato è determinante. 

Se noi consideriamo astrattamente il dibattito sull’eguaglianza come processo emancipatorio sembra ovvio ritenere che tanto il dibattito concernente l’emancipazione degli ebrei come quello della schiavitù, due temi che attraversano tutto il pensiero filosofico-politico del Settecento, trovino un loro momento specifico nel corso della Convenzione. E in effetti così fu.

Ma il loro esito fu sostanzialmente diverso: in un caso – quello relativo alla condizione degli ebrei – il processo di eguaglianza e di pari opportunità è avviato (non risolto, ma almeno suscita scandalo se si verificano politiche volte ad annullarlo); nell’altro, quello dei neri, il progetto emancipativo è avviato con estrema precauzione, non produce effetti stabili e, alla fine, fallisce e nessuno si cura di riaprirlo né si scandalizza che venga archiviato. 

Per comprendere la differenza occorre riflettere sul contenuto della parola rigenerazione, laddove con questo termine non si intende l’adesione a un sistema di fede bensì a un processo di civiltà. La rigenerazione degli ebrei avviene sotto il segno della loro “civilizzazione”. Il conflitto non è con le credenze religiose, ma con gli usi e il galateo sociale di riconoscibilità. In altre parole: il processo emancipazione e di inclusione allude a un codice culturale. 

L’emancipazione come inclusione attraverso l’iter della rigenerazione se ha prodotto processi di frizione con il mondo ebraico nel corso degli ultimi due secoli è stato dirimente con quei soggetti che non sono e non erano riducibili alla storia degli europei in Europa. Soggetti, tuttavia, che riguardavano la storia dell’Europa fuori dell’Europa, ovvero con quelle popolazioni, usi, modalità e modelli di associazione che non facevano riferimento alla storia europea. 

La questione dei neri rientra in quest’ambito ed è attraverso questo vocabolario politico che è possibile comprendere i motivi delle sue aporie nonché l’origine del sostanziale fallimento del processo emancipativo. 

Il vocabolario politico con cui si definisce la discussione intorno alla questione dell’abolizione della schiavitù e della cittadinanza politica dei neri non trova una soluzione. La questione dell’abolizione della schiavitù, infatti, anziché porsi come problema riferito al vocabolario dell’eguaglianza, si risolve all’interno di quello afferente alla stabilità economica. Il problema non è solo inserirlo all’interno di un lento processo in cui l’abolizione diviene una mèta più che un presupposto, ma anche temporalizzarlo o trasformare la condizione della schiavitù in lavoro dipendente lasciando comunque invariati i vincoli di stabilità. 

Europa: il nodo irrisolto della cittadinanza 

Quando noi diciamo che l’Europa è erede di quella esperienza di emancipazione, assumiamo anche quel nodo irrisolto con cui non vogliamo fare i conti. Quel nodo irrisolto è la matrice che ogni volta mostra i limiti della nostra idea di Europa come progetto di libertà e come patto di cittadinanza inclusiva fondato sull’emancipazione. In breve: la dimostrazione della parzialità del «Progetto ’89» e delle sfide ancora aperte che i contenuti di quel progetto pone a noi nel XXI secolo. 

È bene esserne consapevoli. Con René Char potremmo concludere che

“la nostra eredità non è preceduta da alcun testamento”.

L’evocazione delle “radici giudaico-cristiane” non ci fornirà la soluzione alle sfide di cittadinanza che abbiamo di fronte.  

Non abbiamo ricette già pronte ricavabili dalla nostra storia precedente. 

 

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