Karl Marx è nato a Treviri il 5 maggio del 1818, e morto a Londra il 14 marzo del 1883. Centoquaranta anni sono una cifra tonda, come si dice, ma i duecento anni dalla nascita sono troppo vicini per giustificare altri convegni, rivisitazioni retrospettive e bilanci più o meno imparziali dell’eredità intellettuale del fondatore del comunismo come movimento politico globale.
Tra dieci anni, probabilmente, ci sarà una nuova ondata di celebrazioni. Nel frattempo, dobbiamo accontentarci di quanto è stato fatto in occasione dell’ultimo anniversario, e non è poco.
Un bel film di Raoul Peck è uscito nel 2017, dedicato agli anni turbolenti, e straordinariamente creativi, che precedono la pubblicazione del Manifesto del partito comunista, molte opere di Marx (scritte con Engels o da solo) sono state ristampate, e diverse monografie e biografie (si segnalano in particolare quelle di Jonathan Wolff, Massimo Mugnai, Gareth Stedman Jones e di Marcello Musto) hanno dato un contributo a una migliore conoscenza della sua vicenda umana e intellettuale.
Un anniversario “minore” può essere quindi l’occasione per aggiungere al massimo qualche spunto di riflessione, e magari per stimolare chi non lo conosce ad avvicinarsi a uno degli autori che, nel bene e nel male, hanno influenzato in modo più profondo e duraturo la cultura e la politica del Novecento.
In questo spirito vorrei offrire il mio piccolo contributo, che si rivolge soprattutto a una nuova generazione di possibili lettori: ragazze e ragazzi che sono nati nel nuovo secolo, e che stanno crescendo in un mondo in cui l’influenza di Marx è senza dubbio inferiore rispetto ai decenni precedenti.
Non cercherò di convincere questa nuova generazione della rilevanza del pensiero di Marx per i problemi che essa deve affrontare, anche perché sono certo che sia loro evidente. Pur essendo per molti versi cambiato, il capitalismo di oggi manifesta la stessa tendenza a mortificare la dignità umana che destava l’indignazione di Marx nel XIX secolo:
L’essere umano continua a essere trattato come uno strumento fungibile, da usare fino a quando serve, altrimenti da sostituire. La precarietà – che alle nuove generazioni viene indicata come un’opportunità da sfruttare, coltivando la flessibilità e la disponibilità a piegarsi come delle virtù – era per Marx ciò che impedisce agli esseri umani di sviluppare liberamente le proprie potenzialità.
Vorrei aiutare i ragazzi e le ragazze di oggi a comprendere come leggerlo, perché le sue opere si prestano a diversi fraintendimenti e distorsioni, di cui sono responsabili sia gli ammiratori troppo zelanti sia i critici superficiali. Quella che propongo qui è dunque una brevissima guida alla lettura di Marx, pensata per loro.
La prima cosa di cui un nuovo lettore dovrebbe tener conto, è che Marx è stato un filosofo. Anche se aveva studiato in un primo tempo diritto, i suoi interessi si rivolsero presto verso la filosofia.
A predisporlo in questo senso era stato già l’ambiente familiare. Suo padre Heinrich era infatti un avvocato ebreo, che si era convertito al protestantesimo per poter esercitare la professione legale.
Nell’ambiente relativamente liberale della Renania dei primi anni del XIX secolo, il padre di Karl si era appassionato al pensiero degli illuministi, ed è probabile che abbia trasmesso al figlio – come suggeriscono alcuni scritti che risalgono agli anni della scuola – una sensibilità per le idee di questa corrente di pensiero.
Quando si reca a Berlino, tuttavia, per continuare i suoi studi universitari, Karl scopre le opere di Hegel, scomparso di recente, che nella capitale prussiana aveva insegnato a lungo. Attraverso Eduard Gans, e poi sotto l’influenza di un gruppo di giovani hegeliani non ortodossi, lo studente renano si rivolge alla filosofia, e comincia a sviluppare le proprie idee sulla religione e sulla politica. Convincendosi che il modo migliore di trarre profitto dall’insegnamento di Hegel fosse di rivolgere il metodo dialettico contro le conclusioni raggiunte dal maestro nelle opere della maturità.
Se Hegel aveva messo in guardia i filosofi dalla tentazione di anticipare il corso della storia, invitandoli invece a comprenderlo, Marx si convinse che il loro compito nel nuovo tempo annunciato dalla rivoluzione francese fosse di cambiare il mondo.
Questa conversione dalla riconciliazione alla critica non comporta tuttavia un ripudio integrale, da parte di Marx, del pensiero di Hegel. Molti anni dopo la prima formulazione delle sue critiche a Hegel, infatti, Marx scriveva:
«La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nella mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale dentro il guscio mistico».
Questa è la missione cui Marx si dedica con caparbietà e passione, che lo condurranno a confrontarsi con temi nuovi, e discipline diverse dalla filosofia che aveva studiato con Gans e discusso coi giovani hegeliani.
Rimane il fatto che, come filosofo, Marx è profondamente influenzato da Hegel. La sua filosofia, come quella di Hegel, non è analitica, ma sintetica. Non guarda al concetto astratto dalla realtà, ma al processo.
La storia entra dentro l’officina della filosofia, e ne cambia il modo di operare.
Quindi i nostri giovani lettori che si avvicinano per la prima volta ai testi di Marx, non solo a quelli giovanili, ma anche a quelli della maturità, dovranno fare lo sforzo (ed è un bello sforzo) di familiarizzare con le idee di Hegel. Evitando le caricature, e approfittando delle guide che oggi hanno a disposizione per intenderne il metodo (tra le cose disponibili in italiano, consiglio di leggere per primo il capitolo su Hegel della Storia del pensiero politico di Alan Ryan, un esempio luminoso di come si può fare divulgazione senza banalizzazione).
Abbiamo detto che Marx, partendo da Hegel, e in particolar modo dalla sua Filosofia del diritto, si avvicina a ambiti disciplinari nuovi, diversi da quelli con cui si era familiarizzato da studente a Berlino.
Riflettendo sui limiti dell’idea borghese e liberale di emancipazione, ovvero sull’eredità della rivoluzione francese filtrata attraverso le riforme che nel periodo napoleonico avevano investito anche la sua nativa Renania, egli si rende conto che è necessario approfondire l’economia politica.
Perché la libertà borghese – formale – non mette a riparo chi è escluso dalla proprietà dei mezzi di produzione dallo sfruttamento e dall’alienazione.
Marx legge i pionieri della disciplina, che si trova tuttavia ancora in uno stato “fluido”, ben lontana dalla coerenza e dal rigore metodologico cui approderà solo a partire dalla fine del secolo, nei lavori di Jevons e poi di Marshall.
Un po’ alla volta, e anche grazie allo stimolo di Engels, il centro dei suoi interessi si sposta verso la critica dell’economia politica. Gli strumenti della dialettica si applicano dunque al nuovo ambito, lasciando sullo sfondo la filosofia.
Si potrebbe dire dunque che Marx si può leggere pure come un economista.
Anche in questo caso, tuttavia, il lettore novizio deve essere consapevole che l’economia di Marx non è quella che potrebbe incontrare in un manuale odierno.
In primo piano c’è David Ricardo, che a Marx interessa perché è quello tra i classici che mette a fuoco in modo più netto il conflitto tra Capitale e Lavoro.
Nonostante le centinaia di pagine che Marx dedica nei suoi scritti a questioni empiriche, ciò che gli interessa veramente è il metodo della nuova disciplina. Per lui criticarlo è il modo per stabilire una nuova scienza della società, che consenta di cambiare il mondo, anticipandone le tendenze di sviluppo attraverso l’individuazione di leggi descrittive.
A Marx non interessa fare le bucce all’ultimo paper di un collega, per poi pubblicare la sua confutazione in una rivista ad alto impact factor. Ha abbandonato da tempo, ormai, le sue aspirazioni accademiche, è diventato un attivista politico, soggiornando in diverse città europee per inseguire il sogno di una nuova rivoluzione, non più borghese ma proletaria.
Anche quando trova la sua definitiva sistemazione a Londra, dove vivrà fino alla morte, tollerato dalle autorità britanniche, e spiato dalla polizia prussiana, l’attività di studio e di scrittura si intreccia e si sovrappone con quella di giornalista, di intellettuale pubblico (come diremmo oggi) e di attivista.
Rivoluzionario professionale, discute e litiga di continuo con sodali, compagni e avversari.
In conclusione, Marx è un filosofo, ma della filosofia ha un’idea diversa da quella di buona parte dei suoi predecessori, e anche di molti dei posteri.
Gli interessa l’insieme, e spesso è sbrigativo nell’analisi delle parti, è convinto che la realtà sia essenzialmente dinamica, materiale e concreta, quindi diffida dei modelli statici, dei discorsi normativi, delle astrazioni che separano forma e contenuto.
Nel corso della sua vita ha scritto tantissimo, non tutto quello che ha scritto era inteso per la pubblicazione, e anche le sue opere più importanti hanno un carattere in qualche modo provvisorio.
Alla sua morte stava ancora riflettendo, rivedendo, studiando, in vista dell’elaborazione finale di un affresco che è rimasto incompiuto.
Dopo di lui, compagni e seguaci hanno cercato di costruire una dottrina utilizzando i materiali del cantiere che aveva inaugurato quaranta anni prima a Berlino, senza riuscire a chiuderlo.
L’ultima raccomandazione è quella non leggere Marx come il profeta che ha enunciato i dogmi di una religione.
Le sue opere sono piene di false partenze e nuovi inizi, di affermazioni criticabili e di argomenti che non stanno in piedi, se non grazie a notevoli sforzi interpretativi, e talvolta neppure in quel caso. Mescolati con invettive, battute fulminanti o di cattivo gusto. Ma al fondo, e al netto dei suoi limiti, c’è una passione bruciante per una libertà che sia pienamente umana, che si esprima attraverso relazioni non strumentali tra le persone.