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Caos e inefficienza: l’Italia in Albania dopo la caduta del fascismo


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A partire dall’immediato secondo dopoguerra, il discorso pubblico e, collateralmente, la letteratura scientifica hanno fin da subito riposto molte delle loro attenzioni e riflessioni sulle conseguenze immediate e di lungo periodo che il 25 luglio 1943 ebbe specialmente nella penisola.  Poco o nulla è stato invece detto sugli echi che questa data così significativa per il calendario civile nazionale ebbe nelle colonie italiane, dove la notizia della destituzione e dell’arresto di Mussolini innescò dinamiche fondamentali per comprendere i futuri-passati del Paese. Ciò è sicuramente dato dall’evidenza storica visto che, in quel giorno, molti di quei territori risultavano già persi per mano nemica. È anche vero però che il silenzio su questa pagina del passato è riconducibile ad altre ragioni, di certo meno lampanti, ma forse più stimolanti perché interrogano il nostro tempo.

La generale percezione dello spazio coloniale rientra probabilmente fra queste, sebbene negli ultimi decenni la storiografia abbia fortunatamente fatto diversi passi avanti a differenza del dibattito politico e pubblico, che su questo argomento sconta invece ancora un grave ritardo. Viste a un a un tempo quali estensioni vere e proprie della madrepatria e quali margini che mantengono una loro pronunciata alterità, le colonie sono infatti entrate a far parte in maniera strutturale della storia nazionale solo recentemente. In precedenza, le vicissitudini di queste regioni restavano in ombra o, nel migliore dei casi, venivano studiate in quanto flebili riverberi di un centro illuminato, al contrario, di luce propria.

A questa prima spiegazione, inoltre, se ne lega indissolubilmente un’altra. Alla fine della Seconda guerra mondiale l’Italia non era più una potenza imperiale e si prestava a diventare una repubblica plasmata nelle sue fondamenta da una costituzione antifascista. Ciò significa che eventi come, ad esempio, il voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo nei confronti di Mussolini, l’arresto del dittatore deciso dal re Vittorio Emanuele III e lo scioglimento per decreto-legge del Partito nazionale fascista avvenuto il 2 agosto furono riletti in funzione della costruzione della nuova autobiografia della nazione, ossia quale abbrivio di un moto lineare che conoscerà un suo compimento con la Liberazione e con la transizione democratica del Paese.

Il caso albanese

Di fronte a contesti altrimenti fissi e a un mito fondativo – quello di un’Italia linearmente antifascista – che rischia sempre più di avvilupparsi su sé stesso senza proiezione futura, cambiare prospettiva e vedere quali dinamiche si innescarono non in centro, ma in quella a lungo considerata come periferia, permette di recuperare allora una complessità altrimenti difficile da mettere a fuoco. Ciò diventa ancora più evidente se guardiamo alla periferia della periferia in termini di discorso pubblico sul colonialismo italiano, e spostiamo l’attenzione sul caso albanese.

albaniaEntrata a far parte dell’impero fascista con lo statuto di protettorato italiano nell’aprile del 1939, in seguito a una rapida occupazione militare e la proclamazione di un’unione personale delle due corone, l’Albania stava già da qualche tempo attraversando una grave crisi e gli avvenimenti romani di fine luglio e inizio agosto 1943 non fecero altro che attestare quanto molti avevano compreso ancora dalla seconda metà del 1941 in seguito alla disastrosa campagna in Grecia, ossia che il dominio del colonizzatore si reggeva su delle fondamenta d’argilla e che, di conseguenza, l’unione italo-albanese era destinata a sfaldarsi entro poco tempo.

 

 

 

Il cambio di governo dall’altra parte dell’Adriatico, nonché il precedente sbarco degli angloamericani in Sicilia, rese infatti evidente l’inevitabilità della sconfitta militare dell’Asse, inasprendo di conseguenza quelle tensioni sociali che già da alcuni mesi stavano fiaccando l’autorità italiana sul territorio. I maggiori problemi provenivano principalmente da quelle componenti della società albanese su cui il progetto coloniale fascista aveva probabilmente investito gran parte delle risorse col fine di fidelizzarle: gli studenti, gli impiegati statali e i militari.

Da tempo attenzionati e schedati per le loro presunte simpatie comuniste e per le loro continue proteste sottoforma di scioperi, i primi scesero in piazza a Tirana nei giorni immediatamente successivi al 25 luglio del 1943 ponendosi alla testa di migliaia di persone e bloccando di fatto la città. I secondi reagirono fin da subito abbandonando in gran numero il proprio posto di lavoro e rallentando in questo modo una macchina statale che risultava già di per sé inefficiente per la corruzione dilagante. Gli ultimi scelsero in una percentuale elevata la via della diserzione e andarono a ingrossare le fila delle molte bande di partigiani che imperversavano nel territorio, contraddicendo così la tesi secondo cui l’inquadramento militare nelle forze armate italiane e nella gendarmeria nazionale avrebbe instillato nell’elemento albanese un alto e profondo senso di fedeltà nei confronti di quello italiano.

La risposta delle istituzioni italiane

Di fronte a questa situazione critica, la risposta da parte delle istituzioni italiane sul territorio fu per forza di cose caotica e, pertanto, inefficiente. Le istituzioni centrali nazionali diedero soltanto indicazioni vaghe su come procedere, concentrate com’erano in quel momento a riorganizzare la catena di potere interno e ad avviare i primi e segreti colloqui per una pace separata con gli Alleati. Incombeva inoltre la minaccia sempre più concreta che i tedeschi, ripresisi dalla sorpresa per l’arresto del duce e il crollo del regime fascista, volessero impadronirsi dell’intera Albania.

Toccò perciò al luogotenente del re a Tirana, il generale dell’esercito Alberto Pariani, prendere di petto la situazione e scegliere nei limiti del suo mandato quale strategia perseguire per difendere al meglio gli interessi italiani. Lo fece, preferendo solcare la strada già battuta nei mesi precedenti, da quando gli era stato conferito l’incarico nel marzo del 1943, ovvero: con una mano confortare l’élite albanese più italofila sul futuro dell’unione italo-albanese, derubricando in questo caso la sostituzione del capo di governo italiano come un fatto meramente di politica interna; con l’altra lasciare ancor più campo libero alle forze armate italiane stanziate nel territorio nel tentativo di reprimere nel sangue la resistenza locale, dopo che si era proceduto ancora nella primavera a istituzionalizzare la rappresaglia, a inasprire le pene e far maggior ricorso alle esecuzioni.

Il crollo dell’unione italo-albanese

Come prevedibile, il dinamismo del luogotenente si rivelò del tutto inutile. Già nella prima metà di agosto l’unione italo-albanese non esisteva sostanzialmente più. Il passaggio delle funzioni di tutela dell’ordine pubblico alle forze armate italiane esautorò il governo sqipetaro da una delle sue prerogative principali, rendendo di fatto lo statuto di protettorato solo carta straccia e vano qualsiasi orizzonte comune sotto l’autorità della madrepatria come dimostrano il repentino travaso di molti notabili locali dalla parte dei partigiani e l’aumento esponenziale degli attacchi ai presidi italiani. Occorse però aspettare settembre per porre realmente la parola fine a ogni velleità imperiale, quando l’annuncio dell’avvenuto armistizio diede il via libera all’esercito tedesco ad occupare le principali città e gli snodi infrastrutturali più importanti, prendendo così alla sprovvista e lasciando in balia degli eventi i quasi 100.000 militari italiani di stanza nella regione.

Un epilogo del genere era del resto scritto. L’evolversi del conflitto e, in particolare, i fatti del 25 luglio 1943 avevano accelerato il logoramento inesorabile dell’autorità italiana in Albania, mettendo a nudo le radici profonde del fallimento del progetto coloniale fascista. La mancanza di un controllo capillare del territorio e il flebile sostegno della popolazione rendevano impossibile qualsivoglia tentativo di lungo periodo di trasformare il Paese delle aquile nella quinta sponda italiana e, soprattutto, in una testa di ponte per una futura penetrazione economica, commerciale e politica nei Balcani o comunque verso Est.

Sarebbe forse stato meglio tornare a considerare l’Albania unicamente quale fattore di difesa del canale d’Otranto, come avrebbe mestamente suggerito il ministro Raffaele Guariglia a Pariani il 30 agosto sulla falsa riga della politica coloniale giolittiana. Neanche questo però avvenne dal momento che il 29 novembre del 1944 i partigiani albanesi – e alcuni ex soldati italiani passati dall’altra parte dopo l’8 settembre – contribuirono a liberare la propria terra dalle ultime truppe nazifasciste e ad avviare quel processo che avrebbe ben presto portato il Paese all’indipendenza.

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