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Un esempio di buona politica: Giacomo Matteotti e l’indagine sul campo


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I volti di Matteotti

Dietro al profilo di Giacomo Matteotti, militante socialista a tutto tondo prima ancora di essere un martire del fascismo, possiamo intravedere diversi Matteotti: brillante studioso di diritto avviato alla carriera accademica se non fosse intervenuta la passione per la politica; abilissimo amministratore locale, più volte consigliere comunale e sindaco di numerosi piccoli comuni del Polesine; pacifista intransigente che non ha paura di perdere la propria libertà personale pur di difendere i suoi ideali; inflessibile antifascista che denuncia le violenze delle camicie nere sfidando l’opinione pubblica moderata; esperto conoscitore del Parlamento e dei suoi meccanismi più complicati.

Se si guarda bene, magari mettendo da parte la retorica così consueta nelle ricorrenze, specialmente in quelle “di peso” come è certamente questo 2024 in cui cade il centenario dall’uccisione di Matteotti per mano della “ceka” fascista, credo si possa scorgere un fil rouge che unisce tutti i tasselli del variegato profilo biografico dell’esponente socialista: come viene giustamente sottolineato da alcuni dei più interessanti volumi usciti di recente (per esempio, Giacomo Matteotti. L’Italia migliore, che Federico Fornaro ha pubblicato per i tipi UTET), Matteotti riusciva a corroborare il suo attivismo politico con una continua indagine sul campo, con cui osservava la realtà senza paraocchi: il tutto gli serviva per rafforzare le sue proposte e i suoi programmi, così come per smentire verità di comodo.

La scuola

Un primo esempio ci viene fornito dal modus operandi di Matteotti a proposito dell’istruzione pubblica, un tema che iniziò ad essere al centro dei suoi interessi fin da quando, giovane studioso di diritto, gli capitava di compiere viaggi di studio, come ad esempio quello in Gran Bretagna nel 1910. Un anno prima, per onorare la memoria di suo fratello Matteo, studioso di economia politica, scomparso prematuramente per colpa della tisi, Matteotti scrisse al sindaco di Fratta Polesine comunicandogli la donazione, da parte della sua famiglia, di 50.000 lire (grosso modo equivalenti a 210.000 euro di oggi) che avrebbe dovuto finanziare la costruzione di un edificio ad uso scolastico, così da contribuire efficacemente alla battaglia contro l’analfabetismo.

Attenzione: non si trattava affatto di un approccio caritatevole. Concepito sulla base di un’attenta osservazione della realtà, Matteotti voleva promuovere l’istruzione pubblica nel suo comune di nascita, ma un po’ in tutto il Polesine, ben sapendo che esisteva – e a dir la verità esiste – un legame fortissimo tra riscatto dei ceti sociali più svantaggiati e politiche scolastiche avanzate. Ebbene, a suo dire (e come dargli contraddirlo?), il miglioramento delle condizioni di vita, legato al progresso sul luogo di lavoro, non poteva che partire dalla lotta all’analfabetismo, che nel comune di Fratta Polesine, come mostrato dal censimento del 1911, riguardava oltre la metà della popolazione.

Divenuto deputato dopo le elezioni del 16 novembre 1919, Matteotti riprese il filo di quella battaglia, arrivando a polemizzare con Benedetto Croce, ministro dell’istruzione del quinto (ed ultimo) governo di Giovanni Giolitti. Di fronte allo scetticismo di Croce sulla possibilità di costruire nuovi edifici scolastici in provincia di Rovigo per ridurre il numero delle «scuole con orario sdoppiato», Matteotti non contestava al ministro soltanto poca concretezza. Lo criticava, senza alcun timore reverenziale, perché non era riuscito a mettere a bilancio la spesa di 50 milioni che, se prevista per ciascuna annualità, avrebbe garantito la soluzione del problema. «Io mi meraviglio come questa somma non si possa trovare», esclamava appunto Matteotti l’8 agosto 1920, «quando si tratta dell’istruzione elementare, della cosa più elementare che ci sia».

Per quanto riguarda invece l’altra questione, e cioè la capacità di Matteotti di smontare verità di comodo o di facciata sempre ricorrendo al metodo dell’indagine, è il caso di fare un salto in avanti all’ottobre del 1923. Ad un anno dalla marcia su Roma, Mussolini non perde occasione per sottolineare la diversità del fascismo: fin dal discorso con cui si era presentato alla Camera da neopresidente del Consiglio il 16 novembre 1922 – il “discorso del bivacco” –, il capo del fascismo aveva dichiarato di voler ricorrere ad un approccio risoluto, non più segnato da compromessi che magari rischiavano di sconfinare nel clientelismo, come talvolta accaduto al tempo dell’Italia liberale.

Ebbene, Matteotti, sempre grazie al fiuto da investigatore, era riuscito a dimostrare l’esatto contrario. Sull’edizione del 19 ottobre 1923 de “La Giustizia”, il giornale del Partito socialista unitario di cui era divenuto segretario, scriveva appunto che era «in possesso della circolare emanata dal Provveditore di Perugia agli Ispettori e Direttori delle scuole della provincia, colla quale si raccomandava e anzi s’invitava senz’altro tutti costoro (…) di fare adottare il Quaderno Balilla». Altro che diversità: appena giunto al governo, il fascismo aveva spinto perché i quaderni «di una certa marca» venissero adoperati da tutti gli studenti del Regno.

La battaglia contro le diseguaglianze

Un altro episodio, sempre a proposito delle false verità smontate da Matteotti grazie ad un’attenta analisi della realtà, riguarda la gestione del bilancio fatta dal governo Mussolini nel suo primo anno di vita. Ebbene, per l’Italia dei primi anni Venti – un po’ come per l’Italia di oggi – la battaglia contro le diseguaglianze rappresentava un punto cruciale, specialmente per i deputati socialisti. Per abbattere una simile piaga, Matteotti chiedeva investimenti più accorti. Tutto il contrario, ad esempio, di quanto aveva deciso di fare il primo governo di Mussolini. A parole propensi a varare misure per i ceti più deboli, quando poi si trattava di concretizzare le dichiarazioni, ecco che i fascisti decidevano magicamente di garantire finanziamenti “a pioggia” ad aziende che avevano dimostrato tutta la loro inefficienza, Ansaldo su tutte. Leggere i bilanci dello Stato voleva dire cogliere queste storture e poi denunciarle in quella che era la casa di tutti gli italiani, il Parlamento appunto.

Ebbene, probabilmente, senza indagine sul campo non ci sarebbe stata quella capacità politica di Matteotti di individuare le battaglie per cui valeva la pena battersi: dall’istruzione al contrasto dell’immagine “linda” del fascismo, soltanto per richiamare gli esempi citati. Eppure, questa peculiarità di Matteotti è troppo spesso dimenticata, che deve essere ricordata: mi pare questo uno dei più grandi lasciti che il dirigente socialista ha lasciato alle generazioni che l’hanno seguito e che lui, a causa del fascismo, non ha potuto incontrare.

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