Un bilancio degli ultimi vent’anni di guerra afgana, conclusasi a sorpresa il 15 agosto 2021, andrebbe tentato da almeno due angoli visuali. Uno posto ad Ovest, con gli occhi della coalizione occidentale che ha investito nel conflitto – tra Europa e Stati Uniti – le maggiori risorse sia finanziarie sia nel comparto militare sia nel sostegno agli esecutivi Karzai e Ghani. L’altro posto a Est, come se osservassimo la fine della guerradalla catena dei monti Suleiman, che segnano il confine col Pakistan, dalle pianure desertiche dell’Afghanistan o da quelle alluvionali dell’India e del Paese dei puri.
Visto da occidente
Nel primo caso vediamo una sconfitta senza precedenti in grado di surclassare, almeno nell’impatto mediatico sull’opinione pubblica dei Paesi impegnati, addirittura la guerra del Vietnam e le scene dell’ultimo assalto agli elicotteri che si levavano in volo dal tetto dell’ambasciata americana. Una sconfitta che è ancora una nebulosa con molte domande e poche confuse risposte: a cosa è servita questa guerra ventennale?
Quanto è costato sostenere un governo corrotto, senza un reale sostegno popolare e figlio di elezioni con risultati chiaramente manipolati (col nostro consenso)? Come è stato possibile non accorgersi che l’esercito afgano esisteva in parte solo sulla carta e che, per il resto, si è arreso ai Talebani dopo un’evidente (ma solo adesso) opera di trattativa e negoziazione tra guerriglia e generali, governatori e sindaci di città che si sono consegnate senza combattere? Infine, che eredità lasciamo nel Paese dell’Hindukush? Partiremo da qui.
L’eredità che lasciamo è davvero poca cosa, nonostante la strenua difesa di alcuni valori disseminati nella società afgana o meglio in un’élite urbana ristretta e chiaramente dipendente – come per altro la macchina dello Stato – da finanziamenti esterni. Ma diritti di genere, libertà di stampa ed elezioni – ancorché ristrette a una fetta di popolazione (che nel caso del suffragio si è andata sempre più riducendo) – non bastano se si guarda alle promesse fatte già nella Conferenza di Bonn del 2001 dopo la cacciata dei Talebani: riforme dello Stato e Costituzione, riforma del sistema penale, sviluppo rurale e sostegno all’imprenditoria, garanzia di accesso a servizi essenziali, grandi infrastrutture.
Dopo vent’anni il quadro è tragico: al momento della partenza dell’ultimo marine, sette afgani su dieci vivevano ancora sotto la soglia di povertà: l’accesso alla sanità pubblica era ridotto alle grandi realtà urbane e su un modello di sanità privata per molti inarrivabile. Anche l’istruzione restava un fenomeno con luci e ombre che, benché garante della parità di genere, consentiva un accesso assai minore rispetto a quanto si credeva:
a fine 2016, a 15 anni dall’intervento, il governo afgano si accorgeva che non erano 11 milioni i bambini che frequentavano le circa 17.000 scuole del Paese – come la propaganda voleva – ma solo sei, circa la metà: a essere precisi ne risultavano iscritti nove ma un terzo fra loro era solo registrato e non frequentava.
Un po’ come per l’esercito afgano: soldati solo sulla carta e dunque inesistenti mentre chi stava con l’arma in pugno non ricevevano lo stipendio da mesi.
Sul sistema giudiziario va ammesso che quello talebano, per quanto certamente meno garantista, si è dimostrato più veloce ed efficace. Le grandi infrastrutture hanno privilegiato soprattutto la logistica militare (aeroporti) mentre scuole, ospedali, centri di salute e sociali hanno assorbito in media – fatta cento la spesa totale civile-militare – tra il 5 e il 10% dell’investimento occidentale. È interessante notare infine che, mentre continuiamo a sbandierare (giustamente per altro) i dritti negati di donne e giornalisti, nessun governo (il nostro in particolare) ha fatto, non diciamo ammenda, ma nemmeno un dibattito pubblico sulle ragioni di una sconfitta costata solo al contribuente italiano poco meno di 9 miliardi di euro.
Visto da Oriente
Visto dai Talebani il bilancio della guerra è ovviamente non solo più che scontato ma addirittura sorprendente per loro stessi. Questo movimento, oscurantista nei valori e difensore della tradizione, è riuscito a imporsi come un modello nazionalista il cui primo obiettivo era cacciare l’invasore – dunque por fine al conflitto – proponendosi come fronte sovratribale e non solo (come all’inizio) pashtun. Benché il Paese versi su un crinale pericoloso che, per mancanza di beni di prima necessità e di circolante, rischia uno scontento che può riattizzare sacche di resistenza anche armata e benché la minaccia dello Stato islamico (IsKp) sia tutt’altro che contenuta, l’Emirato può così giocarsi la carta della pace.
Per molti afgani, contrari sia alla guerriglia in turbante sia al governo sia agli occupanti (come dimostrarono i movimenti pacifisti dal basso del 2019), il consenso ai Talebani riempie ora il vuoto di consenso creatosi, col prolungamento della guerra, in coloro che avevano sperato nel 2001 in una stagione di pace dopo i vent’anni di guerra precedente (dieci di occupazione sovietica, sei di guerra civile intra-mujahedin, quattro di conflitto tra Talebani e chi resisteva loro).
La scommessa sulla pace può funzionare solo a patto che l’amnistia proclamata dall’Emirato venga osservata e che vengano puniti gli eccessi, le ruberie, le vendette e gli omicidi connaturati alla fine di ogni conflitto ma alimentati da comandanti e rais locali, assai più rozzi della leadership che trattava a Doha con gli americani e che ora governa. Capi bastone che ora vogliono conservarsi una fetta di potere locale nella tradizione afgana dei “signori della guerra”, che fondano il loro carisma sul controllo di fette di territorio e legami tribali.
L’altra scommessa è quella di riuscire a conciliare le anime stesse che compongono la leadership “erudita”, erroneamente paragonata a quella di vent’anni fa: una lotta interna tra i kahandarì forti soprattutto al Sud – i Talebani della prime ora fondatori del movimento – e personaggi che hanno costruito il loro potere altrove, come i “Talebani dell’Est”, guidati dalla famiglia Haqqani, cui fa capo l’attuale ministero dell’Interno.
Ma vista da Est la vittoria talebana vuol dire anche altre quattro cose: l’apertura verso nuove alleanze (Cina, Russia), l’incognita dei rapporti con l’Iran (per ora buoni), la soddisfazione del Paese dei puri che ha ora a Kabul un “governo amico”, del quale si sta servendo per negoziare in Pakistan con gli islamisti di casa che tanta ispirazione hanno tratto dai fratelli afgani. E infine la contrarietà di Delhi che nei governi Karzai e soprattutto Ghani aveva trovato un forte alleato contro il nemico per eccellenza: il Pakistan.
Un nodo quest’ultimo gravido di pericoli che la fine della guerra afgana non ha sciolto.