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A 50 anni dalla guerra del Kippur


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All’origine della riflessione che prova a dare volti e fisionomie a questo approfondimento stanno due domande:

La prima: che personalità e dunque quale singolarità e centralità nel tempo ha assunto la “guerra del Kippur” dell’ottobre 1973 in tutti i suoi protagonisti?

La seconda: che cosa segna la decisione dei paesi Opec di innalzare il prezzo del greggio al barile?

Entrambe ci interrogano in merito alla questione: quanto il nostro tempo è figlio di quella congiuntura? Ovvero: quanto quel corpo di eventi segna uno spartiacque, un “prima” e un “dopo”?

 

Prima domanda

La condizione attuale del conflitto israelo-palestinese di chi è figlia? Alcuni potrebbero rispondere che tutto deriva dalla nascita stessa dello Stato di Israele. È una risposta, anche se non spiega nulla. In politica, le realtà statali si formano sulla base di processi che rispondono a come si ridisegnano le mappe grandi di area (ovvero un gioco di equilibrio di carattere internazionale, ma anche in relazione a dinamiche che riguardano il “campo stretto di gioco”).

Le dinamiche sono quelle che di solito ci raccontiamo. Riguardano: il confronto fra potenze, il fatto che Israele sia stata intesa come “ricompensa” dopo la Shoah; il fatto che gli Stati arabi nascevano come realtà del processo di decolonizzazione e che i palestinesi non fossero riconosciuti come un attore nazionale. Insieme nel 1948-1949 quella guerra definisce confini in cui ognuno cerca di essere il dominus. Per farlo, gli elementi avvertiti come estranei vengono espulsi, invitati forzatamente ad andarsene, oppure fuggono perché ritengono che quel luogo non sia più sicuro per loro. Non c’è una sequenza, ma l’esodo dei palestinesi è forzato in alcuni casi, in altri è volontario, per il timore che accada ciò che sta accadendo altrove, in parte è un’unione dei due. Contemporaneamente questo riguarda anche ebrei che si allontanano dai loro luoghi (dalla Siria, dall’Egitto, dal Libano, in quella che sta per divenire la Giordania). Per molti, il luogo di residenza sicuro cessa di essere il luogo in cui sono nati.

Ma se noi osserviamo le dinamiche in atto nel “campo stretto di gioco”, dobbiamo anche dirci altro.

Quelle dinamiche interne definiscono: la formazione di una classe politica; un’idea di organizzazione della società civile; un insieme di servizi, strutture, apparati culturali che quella realtà che vuole trasformarsi in Stato si candida a rappresentare e a garantire. Nel 1948 quella che poi diverrà Israele aveva tutti questi requisiti. A fronte di ciò il mondo dei palestinesi non ne aveva nessuna o credeva che quella realtà fosse rappresentata da uno degli Stati che si stava formando nel processo di decolonizzazione. Non è andata così.

Un’altra risposta che molti danno è che

la storia nasce come conseguenza della “guerra dei sei giorni”. Quella guerra e – soprattutto il risultato di quella guerra ­­– segna un “prima” e un “dopo”, ma non fa esplodere ancora tutte le contraddizioni che si trovano sul piatto oggi.

Se oggi volessimo andare a scavare sulle origini delle condizioni che definiscono il quadro odierno e le condizioni di quel conflitto, sarebbe alla guerra del Kippur (5 ottobre – 25 ottobre 1973) che dovremmo guardare per comprendere la composizione del quadro attuale (politico, sociale, emozionale, dell’immaginario ecc.), quadro che chiede di essere risolto.

Vuol dire:

  • inizio della crisi profonda del quadro politico interno israeliano che significa fine dell’egemonia laburista e inizio del lungo percorso a egemonia della destra nazionalista e religiosa;
  • composizione del conflitto interno al mondo variegato, complesso e infraconflittuale dei palestinesi che non sono solo profughi. Sono anche: cittadini con diritti politici e spesso con differenti diritti sociali dentro la realtà dell’Israele storico, ovvero pre-guerra dei sei giorni, e nei territori occupati, nel mondo dell’esilio palestinese che ha avuto processi di diaspora, ovvero non si trova solo fuori dal territorio che considera la sua madrepatria, ma che ha costruito la sua vita altrove e che in quel luogo probabilmente non tornerà. In quel caso il tema è il rapporto con la propria identità, tema che ha connessioni profonde con la produzione dell’immaginario indotto dalla letteratura, dalla poesia, (un tema su cui è ancora fondamentale lo scavo preliminare proposto da Edward Said nel 1974. [si vedano le pagine 75-96]);
  • composizione non più omogenea di un mondo arabo che in alcuni casi ha mantenuto posizioni di netta ostilità nei confronti di Israele convinti che la soluzione del conflitto stia nella scomparsa politica di Israele, ma che per altri paesi, ha significato l’avvio di processi di coabitazione, cooperazione, in alcuni casi di alleanza strategica o tattica con Israele;
  • la persistenza di un luogo della crisi rappresentato dal conflitto interconfessionale, interculturale e interetnico della Repubblica del Libano;
  • la ricomposizione del quadro delle alleanze internazionali che accompagnano la lunga storia di quella crisi che riflettono la crisi dei rapporti nell’ultima stagione di «guerra fredda» e poi nel quadro che si apre con la sua fine. Un aspetto che riguarda anche le scelte dell’Europa in quel contesto che assume posizioni distinte rispetto agli Stati Uniti;
  • il fatto che il Medio Oriente ormai non è più solo “sanare il conflitto israelo-palestinese” (per alcuni arretrato quasi a problema marginale) ma un complesso di spazio che diventa improvvisamente uno strano “sesto continente” (collocato tra Africa del Nord, Asia mediterranea, Asia centrale).

 

Seconda domanda

Il quadro della crisi energetica è espresso dalla decisione dei paesi membri di OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries) – Algeria, Arabia Saudita, Ecuador, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Venezuela – che il 17 ottobre 1973 deliberano di rifiutarsi di spedire petrolio verso le nazioni occidentali che avevano sostenuto Israele nella guerra del Kippur contro l’Egitto e la Siria. Questo rifiuto provoca un incremento del 70% nel prezzo del greggio.

Ma quella crisi si inserisce in un quadro economico che è già in sommovimento da almeno due anni, ovvero dalla decisione del Presidente Richard Nixon di rompere gli accordi di Bretton Woods il sistema di Bretton Woods come risposta alla crisi economica interna con la decisione di sospendere la conversione del dollaro in oro.

A questa condizione, la pubblicazione del rapporto del Club di Roma nel marzo 1973 sul tema delle forme dello sviluppo e l’avvio della riflessione sulla necessità di pensare a forme energetiche alternative dovrebbe favorire l’attenzione alle problematiche di quel campo largo di questioni che oggi facciamo rientrare nel campo concettuale della “sostenibilità”.

Non è quello che avviene. Anzi:

il tema continua a essere quello di rispondere con una visione che prescinde dalle domande rivolte al futuro che una parte del pensiero scientifico e del pensiero economico stanno ponendo alla politica.

Non è solo un aspetto che riguarda le diverse sfere del sapere.

Quella sordità o quell’atteggiamento da parte della politica che fa conto di non ricevere i “richiami” e le urgenze che la crisi energetica indica o, almeno, “mette a nudo”, questioni che non sarebbero più rinviabili, non riguarda solo le classi politiche al governo, ma anche coinvolge quel mondo politico che si muove nell’ambito delle sinistre di governo che proprio negli anni ’70 avviano un percorso di riflessione che in Europa occidentale li porterà al governo negli anni ’80 e ’90.

È il mondo delle sinistre riformiste, soprattutto il vasto campo dell’area socialista, che non affronterà quella questione.

Aspetto ancor più rilevante, se si considera che proprio il presidente dell’Internazionale socialista tra il 1976 e il 1992 è Willy Brandt che nel 1977 assume la guida della Independent Commission for International Developmental Issues, nota anche come Commissione Nord-Sud (North-South Commission), che il 12 febbraio 1980 presentò il proprio rapporto conclusivo (il cosiddetto Brandt-Report) che di fatto passa inosservato nella cultura dei governi socialisti in Europa nel ventennio successivo e che a lungo rimane l’espressione di una scelta che coinvolge il solo Brandt, nell’indifferenza della gran parte del movimento socialista e delle sinistre in Europa.

 

Cinquant’anni dopo, tutti i problemi che quella crisi complessiva (sia in relazione alle questioni di territorio, sia in relazione alle sfide del futuro energetico) mette sul tavolo e chiede di risolvere con urgenza, sono ancora lì. Invariati e, ovviamente, irrisolti.

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