Pare che Enrico Cuccia ricordasse che così come era caduto l’Impero Romano prima o poi sarebbe caduta anche Mediobanca. L’acquisizione da parte del Monte dei Paschi di Siena di oltre il 62% delle azioni di Mediobanca probabilmente confermerà la facile profezia di colui che progettò Mediobanca insieme a Raffaele Mattioli nell’estate del 1944 e la diresse come istituzione particolarmente influente del capitalismo italiano.
Il riassetto regolamentare del sistema bancario sancito dalla legge Amato-Carli del 1990 – dopo un decennio di riforme nei fatti promosse dalla Banca d’Italia – determinò la normalizzazione graduale di Mediobanca in un’istituzione finanziaria sì rilevante, per qualità della gestione e risultati reddituali, ma non più così influente nell’orientare le scelte strategiche dei grandi gruppi, la loro stessa struttura proprietaria, fin quasi a divenire un attore non pubblico delle politiche industriali in Italia, come fu nell’aspro tornante della stagflazione.
Il ciclo delle aggregazioni bancarie degli anni Novanta, seguite alle privatizzazioni e coordinate dalla Banca d’Italia, favorì la formazione di due grandi gruppi – Intesa Sanpaolo e Unicredit – e vide fallire quel progetto di fusione tra la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano pensato da Cuccia per ricreare il polo finanziario milanese che aveva dato vita a Mediobanca nell’aprile 1946.
Quel polo che aveva sostanzialmente affiancato le poche grandi imprese del capitalismo italiano e, per i più critici, ne aveva assicurato il controllo da parte di padroni non sempre capaci concorrendo al declino del nostro sistema industriale. Nonostante la perdita di influenza, la riconfigurazione dell’azionariato e della governance di Mediobanca ottenuta nel 2003 dal successore di Cuccia, Vincenzo Maranghi, ha garantito autonomia e continuità al management che ne ha retto efficacemente le sorti negli ultimi vent’anni.

L’obiettivo Generali
Dai primi anni Novanta Mediobanca ha certo perduto il peso connesso all’influenza che aveva nel sistema delle imprese, cessando di essere la stanza di compensazione degli interessi dei maggiori gruppi privati (e, un tempo, tra le imprese pubbliche e quelle private). La metamorfosi di Mediobanca si è compiuta, si è, appunto, normalizzata. Ma con una vistosa eccezione: ha mantenuto la quota di controllo di fatto delle Assicurazioni Generali, la cui graduale dismissione, prevista sin dal 2005, non si è mai realizzata.
La scalata del Monte dei Paschi – una banca salvata con i denari dei contribuenti (per un costo complessivo, tra capitali pubblici e privati, di circa 20 miliardi di euro) e sofferente sino a solo pochi anni fa – a Mediobanca appare motivata proprio dall’obiettivo dei suoi principali azionisti (MEF, Gruppo Caltagirone, Delfin) di pervenire a ottenere il controllo delle Generali. Gli azionisti pubblici (MEF) e privati del Monte dei Paschi hanno senz’altro obiettivi distinti, ma bastano pochi dati per comprendere quale possa essere l’interesse per il principale azionista, il MEF (11,73%), per la straordinaria entità delle risorse gestite dalla compagnia di Trieste.
Le Generali hanno assets under management pari a circa 860 miliardi di euro, una massa finanziaria superiore a un terzo del reddito aggregato del paese, a poco più del 28% dello stock di debito pubblico e a più di due volte il debito in scadenza nel prossimo anno (343 miliardi a giugno 2026). Le Generali, in altre parole, potrebbero diventare un sostegno dei titoli pubblici italiani in caso di necessità, un’eventualità che non si può escludere in un sistema geopolitico globale caratterizzato da alta incertezza e marcata instabilità, ma anche una forzatura che, in prospettiva, potrebbe allontanare gli investitori istituzionali esteri dai titoli italiani, così come l’arrocco per l’italianità della compagnia triestina – all’occorrenza misurabile in potere di influenza sulle scelte del management – porterà probabilmente ad accantonare il progetto di accordo nell’asset management tra le Generali e la francese Natixis che avrebbe fatto delle Generali un player che amministrerebbe con la nuova entità, e alla pari, complessivamente quasi 2000 miliardi di euro.
I dubbi su Mps – Mediobanca
Il controllo di Mediobanca conseguito dal Monte dei Paschi pone quindi una serie di dubbi, a cominciare dall’integrazione tra le due banche, un processo per definizione delicato e soggetto a rischi di fallimento, soprattutto quando sia robusta la differenza tra le culture aziendali, come in questo caso. Il secondo dubbio non può non discendere dalla effettiva qualità della posizione patrimoniale e della redditività del Monte dei Paschi di Siena, il cui ritorno agli utili risale al 2023. Il terzo dubbio è forse il più rilevante e riguarda il cuore del mestiere del banchiere, ovvero la responsabilità e l’autonomia con cui il banchiere deve allocare risorse, gestire risparmi, valutare i meriti di credito dei debitori, le prospettive di redditività di imprese e progetti di investimento, di per sé compiti estremamente difficili – poiché i mercati sono caratterizzati da incertezza – ma a cui affidiamo il bene pubblico della stabilità finanziaria e la crescita di produttività e reddito. Delle condizioni di incertezza dei sistemi economici era consapevole Cuccia, per esperienza e formazione, e per tale ragione fece dell’autonomia il proprio principio cardine, rivendicandola caparbiamente (e ruvidamente) anche verso il Mattioli azionista di Mediobanca.
Il favore con il quale l’opas del Monte dei Paschi è stata assecondata dal governo induce a ritenere che l’autonomia del banchiere – la sua responsabilità ultima – possa venire limitata, ridotta sostanzialmente, generando rischi di distorsioni e inefficienze allocative, esponendo pericolosamente la gestione del risparmio – l’altro lato del bilancio di una banca, che una rigorosa e autonoma gestione degli attivi dovrebbe tutelare – alle mainmises di gruppi privati e soggetti politici, partiti o governo, in assenza di un’adeguata regolamentazione e di efficaci meccanismi di enforcement. Il favor con cui il governo e il Ministero dell’Economia e delle Finanze, primo azionista della banca di Siena, hanno sorretto l’opas del Monte dei Paschi trascolora forse in un ritorno a forme di intervento pubblico, di per sé non necessariamente negative se si considera la banca un’istituzione che deve generare e gestire beni pubblici (moneta e credito) per l’intero sistema economico (e anche per la società).
In passato la formula dell’Iri riuscì conciliare, fino alla metà degli anni Sessanta, la natura essenzialmente pubblica delle banche e l’esigenza di assicurarne autonomia nelle scelte allocative, una formula icasticamente richiamata da Cuccia stesso quando si definì “un centauro metà pubblico e metà privato”, un incontro tra pubblico e privato che nell’esperienza italiana è stato storicamente associato a fasi di crescita più sostenuta.
In questo caso, tuttavia, l’intervento delle autorità pubbliche non appare – è il dubbio di fondo – associato a un modello istituzionale d’insieme che qualifichi in modo adeguato la natura e la direzione della politica economica del governo, ma potrebbe confondersi per un semplice tentativo di acquisire margini di controllo sui flussi finanziari con cui assicurarsi contro shock che pongano in tensione il bilancio pubblico, garantire l’italianità di componenti rilevanti del sistema delle imprese (a discapito di alleanze che ne consentirebbero la crescita su mercati per definizione globali), favorire il consolidamento di gruppi privati più inclini a sostenere, in una logica opaca di scambio reciproco, il governo, ridefinire equilibri di potere nell’economia attraverso i quali consolidare equilibri politici (per esempio, come si userà la quota di Mediobanca in RCS?). Se l’obiettivo è disporre di banche – e compagnie di assicurazioni – amiche non è arduo prevedere l’esito dell’intera operazione: la perdita di autonomia non gioverà alle banche né alle imprese, come avvenne quando il management delle imprese dell’Iri perse la propria indipendenza e i partiti politici ne assunsero di fatto il controllo.
Un nuovo modello per il capitalismo italiano
Se le aggregazioni in corso nel sistema bancario italiano sono sollecitate dalle condizioni di mercato, i requisiti di capitale necessari a reggere ai rischi di shock e gli investimenti tecnologici, e dalla Banca centrale europea, il consolidamento del sistema bancario oggi non è orientato dalla Banca d’Italia, come in passato, ma dal governo. E qui si pone forse la questione d’insieme più rilevante, se esista cioè un modello istituzionale che riconfiguri l’interazione complessa tra le autorità pubbliche e le imprese private, regoli e incentivi gli agenti economici a operare scelte, assumere comportamenti, che consentano di riportare l’Italia su un percorso di crescita da cui si è allontanata oltre trent’anni fa, quando si affidò il compito di disciplinare e riorientare positivamente le scelte di governo e imprese al “vincolo esterno” europeo.
Il capitalismo italiano si è da allora, dai primi anni Novanta, spento, si è arenato su un equilibrio di bassi tassi di crescita della produttività e, di conseguenza, del reddito pro capite. Le privatizzazioni, nell’insieme, non hanno avuto effetti positivi sull’efficienza dinamica delle imprese italiane, come il declino di Telecom testimonia, ma che autorità pubbliche e imprese private nuovamente si intersechino non è in sé un fatto positivo (o negativo). Se l’esito ultimo non sarà quello che si intravede dipenderà, in sostanza, dalla qualità della visione d’insieme, se esiste, e dalla capacità, più che di condizionare la gestione delle risorse delle Generali, di definire un modello istituzionale coerente con la dotazione fattoriale del paese. In altri termini, è questa l’occasione per domandarsi – come fece quasi dieci anni Giuseppe Berta nel suo libro Che fine ha fatto il capitalismo italiano? – che fine abbia fatto, e soprattutto farà, il capitalismo italiano.
