Dobbiamo raccogliere voti?
Il dilemma politico di un Movimento 


Articolo tratto dal N. 63 di Immagine copertina della newsletter

Questa è la mia terra

Siamo nati da una frase,Questa è la mia terra”, che esprime una tensione condivisa: il desiderio di restare in un luogo che si chiama casa e, allo stesso tempo, la frustrazione di non riuscirci perché non offre le condizioni per permetterlo.

L’abbiamo ereditata da Peppe Gatì, semplice ma sufficiente a trasformare un sentimento intimo in qualcosa di collettivo. E, come sempre accade quando una condizione è condivisa, ci siamo attivati per esprimerla.

Da una frase è nato tutto: il festival, la ricerca, le iniziative che hanno raccolto comunità, associazioni, volontari. Attraverso questi spazi abbiamo detto: “non siamo soli, questa è una condizione di ingiustizia che ci riguarda tutti”.

E mentre ci riconoscevamo, è arrivata una consapevolezza più profonda: quello che stavamo facendo era, inevitabilmente, politico.

Nel progetto MA.DRE associato al festival “Questa è la mia terra e io la difendo”, oltre 1.000 studenti siciliani sono stati intervistati per capire perché i giovani pensano di lasciare la Sicilia e come invertire questa tendenza

Dalla consapevolezza alla battaglia per i diritti

Perché reclamava il diritto di un territorio abitato di non essere considerato sacrificabile. Ricordava che in Sicilia vivono sei milioni di cittadini di questo Paese, e che ogni giorno chiedono condizioni dignitose per costruire futuro.

Così, da sentimento è diventata battaglia di diritti: il diritto a restare, a non essere costretti a partire forzatamente.

E quando chiedi diritti, il passaggio successivo è inevitabile: serve lo Stato.

Possiamo sollecitarlo dall’esterno, come abbiamo fatto ottenendo a Roma un intergruppo parlamentare e diverse mozioni, ma a un certo punto dobbiamo assumerci la responsabilità di affrontarlo anche nel modo che la democrazia prevede per esprimere istanze e rappresentanza: il voto

Alle elezioni politiche in Italia del 2022, il 42,7 % dei giovani tra 18 e 34 anni ha scelto di non votare

Il coraggio della rappresentanza

Il voto è lo strumento attraverso cui questo Paese permette alle idee di diventare potere. Non possiamo illuderci che esista una scorciatoia: se vogliamo che le nostre idee contino, dobbiamo avere il coraggio di sostenerle, trasformarle in rappresentanza, portarle dentro.

E questo coraggio non è semplice da trovare, perché le difficoltà sono profonde.

Viviamo sotto una narrazione che ci spinge fuori dalla politica: ci ha insegnato che chiedere voti è un atto di truffa; che lo spazio istituzionale è “sporco” e chi vi entra perde purezza; che quelle istituzioni sono inutili, lente, inefficaci, e quindi non vale la pena entrarci; che quello spazio è “tecnico”, non politico; e che noi non siamo preparati per presidiarlo.

È una narrazione che paralizza: ci fa temere l’esposizione, ci fa credere che restare fuori sia una scelta morale. 

Ma la verità è semplice e scomoda: se noi non ci siamo, altri sceglieranno per noi. Vale per il voto, vale per la rappresentanza. Se non partecipiamo, se non portiamo dentro le nostre istanze, qualcun altro porterà le proprie – e plasmerà il futuro senza di noi. 

Qui si gioca il cortocircuito della nostra generazione: siamo attivi, presenti, capaci di mobilitare territori, ma ci manca il coraggio del passo verso la rappresentanza.

Se riusciremo a costruire quel ponte tra il fuori e il dentro, tra le comunità e le istituzioni, allora forse avremo la chiave per generare dalla nostra attivazione anche impatto di sistema. 

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