Quiet quitting: disimpegno individuale o rinuncia alla lotta collettiva? 


Articolo tratto dal N. 58 di Il lavoro ci (s)finisce Immagine copertina della newsletter

Cos’è il Quiet quitting e perché è diventato virale?

Negli ultimi anni, il fenomeno noto come quiet quitting ha catturato l’attenzione di media, sociologi e psicologi del lavoro. L’espressione nasce nell’estate del 2022 su TikTok, quando un giovane ingegnere newyorkese pubblica un video in cui racconta la sua scelta di “non andare oltre” nelle richieste del lavoro. In poche settimane, il termine diventa virale, rilanciato da milioni di utenti e ripreso dai media globali.  

Nessuna ribellione aperta, nessuna fuga plateale: solo un passo indietro, discreto ma deciso. Si continua a lavorare, ma si smette di “crederci”.

Questo è il quiet quitting: un modo silenzioso di riprendersi il proprio tempo, di segnare un confine dove il lavoro ha occupato tutto. Se le “grandi dimissioni” sono state l’atto esplicito di chi ha scelto di andarsene, il quiet quitting rappresenta la versione sommessa dello stesso malessere: restare, ma smettendo di credere che il lavoro debba essere il centro della propria vita. Una rinuncia meno visibile, ma forse ancora più rivelatrice del cambiamento in corso nelle culture del lavoro oggi.  

Per decenni, il lavoro è stato il principale motore di senso e di riconoscimento nella vita delle persone. L’etica dell’impegno, la meritocrazia, la retorica della passione hanno alimentato l’idea che il lavoro dovesse essere non solo un mezzo di sostentamento, ma una vocazione.

Le tecnologie digitali e la cultura delle piattaforme hanno amplificato questa tensione: sempre connessi, sempre disponibili, sempre produttivi. Il lavoro è diventato una dimensione onnipresente che ha invaso lo spazio privato ed il tempo libero. 

Il coronavirus

La pandemia ha accelerato tutto questo: lavorare da casa, essere reperibili a ogni ora, comunicare (e lavorare) solo attraverso schermi, ha ulteriormente dissolto il confine tra vita e lavoro, lasciando emergere un senso di esaurimento diffuso. Quando il lavoro entra in ogni angolo della giornata, il desiderio di ritirarsi, anche solo interiormente, diventa inevitabile.

Il quiet quitting è, in questo senso, una forma di autodifesa: un modo per stabilire limiti dove non se ne prevedono più. Ridurlo a una moda passeggera o a un semplice rifiuto di lavorare “più del dovuto” significa perdere di vista la sua portata più profonda: è il segnale di un mutamento nella nostra relazione con il lavoro e, forse, anche con noi stessi. 

Due facce della stessa disillusione 

Da questa prospettiva, il quiet quitting e le grandi dimissioni appaiono come due facce della stessa disillusione. Entrambi raccontano la fine di quel patto implicito che per decenni ha legato l’individuo al lavoro: sacrìficati, e in cambio avrai riconoscimento, stabilità, appartenenza.

Quel patto oggi appare infranto. In un contesto di precarietà strutturale, di salari stagnanti e di incessante richiesta di disponibilità, molti non vedono più buone ragioni per “dare tutto”. È in questa crepa che si apre uno spazio nuovo: non la fuga dal lavoro, ma la ricerca di un senso diverso – per chi può permetterselo, si intende.

Perché anche il quiet quitting, prima ancora che una scelta di equilibrio, è un privilegio: possono farlo coloro che hanno margini di sicurezza, economica o simbolica, nel proprio lavoro. Dall’altra parte, chi vive nella precarietà resta intrappolato in un regime di iperdisponibilità, da cui è difficile sottrarsi senza pagarne il prezzo. 

Soluzione individuale per un problema collettivo  

 Con il quiet quitting il lavoro ritorna ad essere ciò che dovrebbe: un mezzo, non un fine. Un modo per vivere, non la misura del valore personale.

Attenzione però a non leggerci troppo dentro: non si tratta di un movimento collettivo, né di un atto di resistenza organizzata, quanto piuttosto una soluzione individuale a un problema collettivo. Tuttavia, di fronte a un sistema che chiede sempre di più e restituisce sempre meno, in termini di sicurezza, riconoscimento e senso, molti scelgono di ridurre il proprio investimento – emotivo, personale, materiale – nel lavoro.

Non per disinteresse, ma per sopravvivenza, nei confronti di un’economia che ha trasformato la dedizione in auto-sfruttamento. Nel quiet quitting ritroviamo quindi la presa di coscienza che l’identificazione totale con il lavoro non è più sostenibile: il lavoro non è più il luogo dove si costruisce l’identità, ma una delle tante sfere della vita, da bilanciare e contenere.

È un gesto di distacco che rompe la narrativa del sacrificio che ha dominato la cultura del lavoro dal dopoguerra ad oggi e riconosce la necessità di proteggersi da un sistema che misura tutto in termini di produttività.  

Spazi di autonomia e dignità 

Le generazioni più giovani, d’altro canto, sembrano meno disposte a sacrificare la propria salute mentale sull’altare dell’ambizione professionale. L’atto del “disimpegno” non è una forma di pigrizia, ma una scelta ponderata che sfida le narrazioni tradizionali sul successo: il valore di una persona non coincide più automaticamente con la quantità di tempo o di energia dedicata al lavoro.

In questo senso, il quiet quitting segnala alle organizzazioni la necessità di ripensare le proprie pratiche, di rispettare i limiti dei lavoratori e di considerare il benessere come una componente non negoziabile della produttività. Ascolteranno?
Difficile a dirsi. In un certo senso, però, il silenzio di chi si ritira dice più di mille parole: è il linguaggio muto di una generazione che non vuole più essere definita dalla produttività.

Forse è proprio da quel silenzio che le imprese e la politica dovrebbero imparare a leggere il futuro del lavoro: non come un campo di pressioni infinite, ma come uno spazio da abitare con autonomia, riconoscimento e dignità.  

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