Il ritorno della “politica di palazzo”

 


Articolo tratto dal N. 50 di Abbiamo una (Medio)banca Immagine copertina della newsletter

L’identità di Mediobanca

Per il grande pubblico l’identità di Mediobanca non era né un logo, né un indirizzo. Era un nome: Enrico Cuccia (1907-2000), l’icona della finanza e del potere. Soprattutto una «bocca chiusa» in un contesto di chiacchieroni. Un insieme di tratti che si sovrapponevano e si incontravano con quelli di un’altra figura che parlava poco: Giulio Andreotti.

Chiediamoci: il silenzio è una garanzia di serietà, meglio di affidabilità?  

Il silenzio talvolta appare o si accredita come segno di ponderatezza rispetto a un potere politico che ambisce a comandare e che, in virtù di quella compostezza, nei gesti come nelle parole, può essere indotto e obbligato (oppure intuisce che è più saggio) fermarsi sulla soglia. Mi chiedo: è questo il significato del silenzio di Enrico Cuccia come di Giulio Andreotti (1919-2013), uno che quando parlava «alludeva»? 

Nel caso di Enrico Cuccia quel silenzio rispondeva a una funzione: unire comando e controllo sui comportamenti degli attori industriali ed economici chiamati al tavolo (qualche volta al divano) per confermare e consolidare il patto che quella banca di affari consentiva di tenere. 

Quel silenzio, dunque, non era né self control, né formazione british. Corrispondeva a uno stile barocco cui corrispondeva una politica propria della corte secentesca. Mostrare potere, non dire tutto, per tenere in mano le regole del gioco. Un galateo in cui il pubblico meno sa, meglio è 

Funzione svolta in silenzio, non per discrezionalità, ma perché virtù del politico è saper parlare in piazza, ma non dire in pubblico tutti i passaggi che rendono l’atto politico possibile. Importante non è il gesto, ma il movimento impercettibile del labbro, l’uso di un vocabolario ridotto. 

Toni Servillo interpreta Giulio Andreotti nel film Il divo

«Non disturbare il manovratore»

La politica per mettere a segno i suoi obiettivi non deve farsi «in pubblico», bensì muoversi e agire «dietro le quinte».  

È una dimensione che da un trentennio è estranea alla nostra quotidianità da quando il crollo della Prima Repubblica è stato assimilato a portare la politica in piazza. 

Trenta anni dopo la scena si inverte: la convinzione, da parte dell’attuale governo, è di aver superato la prova di fiducia e dunque di potersi candidare a riprendere in mano non solo il controllo della politica ma anche la discrezionalità della parola. Il silenzio non come «via di fuga» o come sottrazione dal controllo da parte del pubblico che chiede conto delle cose, ma come autorevolezza del potere. Meglio come sua essenza e come legittimazione del potere ad essere potere. Anche se rispetto a trenta anni fa non è così certo che esista ancora un “capitalismo italiano”. 

Trenta anni dopo la politica del palazzo torna al suo posto, dopo esser rimasta nascosta per molto tempo. Forse vale anche per l’insegna messa all’ingresso della stanza del potere. Nascosta in soffitta ora rimessa a lucido, per tornare al suo posto e ricordarci la sua massima: «non disturbare il manovratore». 

 

Enrico Cuccia in un ritratto degli anni '50
Enrico Cuccia in un ritratto degli anni ’50

Ricevi il numero completo di PUBBLICO nella tua casella di posta

Non sei ancora iscritto? Compila il form!