La forza del lavoro, la debolezza del capitale: (ri)leggere Pasolini oggi


Articolo tratto dal N. 58 di Il lavoro ci (s)finisce Immagine copertina della newsletter

Pier Paolo Pasolini è stato in anticipo sul suo tempo. Come solo pochi, grandi pensatori e artisti hanno saputo essere. Nel pieno del miracolo economico, Pasolini è stato colui che con più radicalità e convinzione ha messo in discussione il benessere consumista, l’agognato sviluppo che allora l’Italia stava (finalmente) conseguendo. Forse per questo pochi lo comprendevano.

Molti lo tacciavano addirittura di reazionario. Del resto, Pasolini parlava di sacralità della natura quando ancora nessuno, o quasi (anche fra i marxisti), teneva in conto i limiti dello sviluppo. Lanciava l’allarme sulla strage della biodiversità («la scomparsa delle lucciole», in un articolo del 1975) ed elogiava la vitalità umana del sottoproletariato, contro l’omologazione tecnologica del potere, anticipava addirittura la decrescita felice (la bellissima poesia La recessione, del 1974, che poi verrà cantata da Alice). Alzava la sua voce a difesa dei Sud del mondo dallo sfruttamento capitalista (quei Sud che, oggi, pagano le peggiori conseguenze del collasso climatico, pur non essendone artefici). E aveva intuito prima degli altri anche la crisi dei partiti (morale, innanzitutto, dovuta all’omologazione e al malaffare) e della rappresentanza politica.

Molte delle critiche di Pasolini, pionieristiche e «corsare», eretiche allora, si sono gradualmente fatte strada e le troviamo oggi ben radicate nel mondo della cultura, non solo italiano, e per certi versi anche nel discorso pubblico. Il motivo? Sono oggi più attuali che mai. Forse, verrebbe da dire, è proprio per questo che noi non abbiamo bisogno di un nuovo Pasolini. Perché Pasolini c’è già. Basta rileggerlo.

Al fondo, c’è in lui la vivisezione di uno sviluppo economico e tecnologico che rischia di travolgere l’umanità (e l’autenticità) delle nostre vite. La tecnologia, cioè quella forza che noi esseri umani abbiamo per trasformare il mondo, sempre crescente ormai, può essere volta contro il nostro benessere, può creare nuove forme di oppressione (un nuovo fascismo) anche più terribili di quelle del passato, e che arrivano a controllare perfino le nostre coscienze. Era stata già la Prima guerra mondiale, nella cieca furia della mitraglia, nei bombardamenti aerei, nei gas chimici, nelle uccisioni indiscriminate di civili fino al genocidio, a infrangere l’ottimistico mito del progresso in voga nell’Ottocento. E poi ovviamente, ancora di più, la Seconda guerra mondiale e i totalitarismi. La riflessione, anticipata peraltro da Leopardi e Schopenhauer, si era aperta allora in campo filosofico ma anche artistico e letterario. In quest’ampio filone Pasolini sa cogliere, non certo da solo (si pensi a Herbert Marcuse), ma in una pluralità di sfaccettature e dimensioni (anche espressive), e con una impressionante potenza evocativa e carica provocatoria, il nodo del problema: l’alleanza fra tecnica e capitale. O meglio, la subordinazione della prima al secondo, nelle logiche dell’economia capitalista. È il potere economico a dominare la tecnica e a dominare per la verità anche il potere politico. E questa generalizzazione della logica del profitto finisce per occupare ogni dimensione della vita e trasforma, quindi, le persone in individui-massa; uccide in questo modo anche la politica democratica e il libero confronto (portando all’affermazione delle autocrazie tecnocratiche e delle democrazie illiberali del mondo di oggi) e ovviamente uccide la diversità (umana: sociale e culturale); di più, devasta l’ambiente e le altre forme di vita non umane; e crea un’illusione di felicità, consumistica, mentre in realtà ci rende schiavi dei suoi meccanismi (e dell’algoritmo, aggiungiamo).

In sostanza, è come se Pasolini avesse intravisto quella che di lì a poco sarebbe stata la svolta neo-liberale con le sue conseguenze, incluse le trasformazioni più recenti. Al poeta, con le sue antenne ben alte, bastano pochi simboli, segni, per prefigurare il mondo che verrà. Se riferita ad allora, infatti, più di mezzo secolo fa, è probabile che la diagnosi di Pasolini fosse esagerata. E resta incerto se la tendenza da lui anticipata (decenni, ad esempio, di incosciente devastazione dell’ambiente; o la crisi della democrazia generata dall’aumento delle disuguaglianze; o il trionfo del potere tecno-finanziario) fosse un tratto inevitabile dello sviluppo capitalista – di quell’alleanza inossidabile fra tecnica e capitale – o non si potesse, invece, governare, rallentare, o perfino impedire (da parte di una politica più consapevole, meno ingenua, meglio strutturata), cambiando il nostro modello di sviluppo. Del resto, se da un lato la visione di Pasolini appare spesso pessimistica, apocalittica perfino, dall’altro vediamo affiorare, lungo tutta la sua opera, un ottimismo che nasce da una grande fiducia nella vitalità, nella bontà e nell’intelligenza umane.

È questo il lascito, il senso stesso, della sua poesia civile. Che non si esprime solo in versi, naturalmente, ma nell’intera opera pasoliniana, dalle poesie ai film, ai romanzi, ai saggi, agli articoli di giornale: un grandioso racconto, corale, popolare, dell’Italia dagli anni Quaranta agli anni Settanta, cioè di un importante paese occidentale, e di una straordinaria cultura e società, nel pieno della sua trasformazione, da povero a moderno: nel corso della sua omologazione, direbbe Pasolini, antefatto della globalizzazione. Ma che senso ha fare poesia civile – e che poesia! – se non si crede che le cose possano cambiare, in meglio, grazie alle nostre azioni? Perché ad esempio interrogare Gramsci, che, con la «mano magra», nel pieno del buio fascista, delinea «l’ideale che illumina»? (Le ceneri di Gramsci, 1957). A chi pensa che non possiamo fare nulla per migliorare la vita o il mondo, non resta che il nichilismo. Ma Pasolini è il contrario del nichilismo. Tutta la sua opera è intrisa anzi, come ben sappiamo, di un sentimento religioso. Ed è una religione terrena, carnale quasi, critica, ma non disperata. E nemmeno utopica. E tantomeno reazionaria. È il sentimento fortissimo di un cambiamento possibile, perché umano, che si oppone alla forza disumanizzante di quell’altro cambiamento, quello in corso, di uno sviluppo guidato dall’universalità del profitto e dalla superficialità consumistica (quella sì, nichilista).

Pasolini, a un certo punto lo riconosce in modo esplicito, crede nella possibilità di lottare contro la direzione tecnocratica e consumistica del nostro modello economico. E a chi lo dipinge come reazionario, ricorda che lui, in realtà, crede nel progresso. Ben diverso dallo sviluppo, però, come spiega in un’intervista del 1974. «Sviluppo e progresso sono due cose non soltanto diverse; ma addirittura opposte; e in particolare in questo momento storico, addirittura inconciliabili». In che senso? Lo sviluppo «vuole la produzione intensa, disperata, ansiosa, smaniosa di beni superflui». Il progresso si fonda invece su «la creazione, la produzione di beni necessari». Nel progresso, vi è l’idea cioè che la tecnologia e l’economia vadano orientate al benessere di noi esseri umani, delle altre specie viventi, del Pianeta. Vadano cioè ancorate alla logica dei diritti e dei doveri, intesi nella loro accezione più ampia. Ed è questa logica, questa ambizione, incompatibile con quella che ha imperato invece negli ultimi cinquant’anni. Pasolini, in fondo, non ci manca, perché aveva detto già, quando era in vita, le cose di cui abbiamo bisogno oggi. O forse proprio per questo ci manca ancora di più.

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