Anche il nemico è un uomo.
Storia orale, memoria e potere


Articolo tratto dal N. 64 di Storie controvento Immagine copertina della newsletter

Intervista ad Alessandro Portelli
Di Luigi Vergallo

La storia orale non è un semplice strumento di raccolta delle memorie, ma un vero campo di battaglia politico e conoscitivo, spiega Alessandro Portelli. Raccontare, allora, non è un gesto neutro: significa assumersi una responsabilità critica, sottrarsi alla disumanizzazione dell’altro e opporsi alla cattiva storia e alla falsa memoria che occupano il centro del discorso pubblico.

L.V: Nel tuo lavoro la storia orale non è mai stata solo una tecnica, ma un diverso modo di interrogare il rapporto tra “verità”, memoria e potere. In un presente dominato da narrazioni belliche, semplificazioni identitarie e grandi cornici geopolitiche, che tipo di penetrazione dell’esistente possono ancora produrre le storie “minori”, le voci laterali, le biografie apparentemente marginali?

A.P: Io credo che il contributo principale consista nel riconoscere l’impossibilità di annullare l’irriducibile diversità degli esseri umani in categorie astratte. Ogni evento storico collettivo impatta su singole persone: alle Fosse Ardeatine o a Gaza non c’è solo “una” strage, ma 335 o centomila persone uccise, una per una, ognuna con una storia diversa. Le storie individuali indicano non tanto quello che statisticamente avviene quanto quello che “può” avvenire e che in quanto possibilità influisce sul comportamento di tutti (per esempio: mille morti sul lavoro o cinquecento afroamericani uccisi dalla polizia nel 2025 sono numericamente una piccola minoranza delle rispettive popolazioni, ma indicano un rischio a cui sono esposti tutti – perciò “the talk” su come comportarsi con la polizia è parte dell’insegnamento in tutte le famiglie afroamericane).

L.V: Dalla storia delle classi subalterne alla svolta linguistica, fino al ruolo esplicito dell’io nella scrittura storica: il Novecento ha progressivamente messo in crisi l’idea di una Storia neutra, oggettiva, “dall’alto”. Oggi questa crisi ti sembra un punto di forza o un punto di vulnerabilità, in un tempo che chiede narrazioni semplici e rassicuranti?

A.P: Anche una storia “dal basso” deve cercare una sua forma di “oggettività”: distinta non tanto da soggettività quanto da arbitrio e falsificazione. Cancellare la soggettività è sia impossibile sia indesiderabile: anche la più ostentatamente asettica delle narrazioni è il prodotto di una scelta del narratore (anche la “neutralità” è una scelta politica). Riconoscere e dichiarare la soggettività in questo senso è un punto di forza, perché significa smettere di sopprimere i dati (come quando si sopprimono le domande per fingere che la fonte orale sia un testo monologico anziché una performance dialogica). Diventa debolezza se la soggettività non viene vagliata attraverso procedure di verifica e paradigmi metodologici condivisi, per cui ogni affermazione diventa buona e tutte le opinioni sono legittime (è il formato della par condicio televisiva o dello “storytelling” di pubblicità e propaganda). Il contributo della storia orale in questo senso consiste nell’ascolto critico di una molteplicità di voci, quindi in una aumentata possibilità di confronto e dialogo. Ma insisto su “critico”: nessuno fa storia orale prendendo per buono tutto quello che ascolta o senza confrontarsi con altre fonti.

L.V: Hai spesso mostrato come il racconto soggettivo non sia l’opposto della storia, ma uno dei luoghi in cui la storia accade e si rende intelligibile fuori dalla cerchia degli specialisti. In che senso l’“io” può essere, oggi, uno strumento politico della conoscenza storica, e non solo una scelta stilistica o autobiografica?

Alessandro Portelli: La memoria non è separata dalla storia, ma è essa stessa un fatto storico. Nella fonte orale, abbiamo ogni volta due eventi: l’evento raccontato e il racconto come evento. In quanto sia la memoria sia il racconto sono atti personali, attraverso di essi il singolo soggetto elabora il proprio rapporto personale con la storia: “che c’entro io con la seconda guerra mondiale?”. Il modo in cui le persone ricordano e interpretano il passato (la memoria è sempre interpretazione) influisce su come agiscono nel presente. Su questo si innesta il lavoro dello storico che usa le fonti orali: disegnare con tutte queste soggettività un mosaico dotato di senso storico generale ma fatto di tante tessere una diversa dall’altra; e intrecciarlo con il riconoscimento esplicito e responsabile della propria presenza – nessun lavoro intellettuale si intraprende senza una motivazione personale, senza un personale desiderio di conoscenza, e questo forse è ancora più vero per la storia orale, che comporta continuo confronto con la differenza delle persone umane.

L.V: Nel tuo lavoro ritorna l’idea che le storie possano aprire spazi di riconoscimento anche tra soggetti in conflitto, persino tra “nemici”. In un contesto globale segnato da guerre, muri simbolici e chiusure identitarie, credi che le narrazioni dal basso possano ancora svolgere una funzione di riparazione, o quantomeno di disinnesco?

A.P: Diceva la partigiana Lucia Ottobrini: anche il nemico è un uomo. Lo scambio di sguardi (intervista) su cui si fonda la storia orale è un embrione di reciproco riconoscimento, una sospensione dell’ostilità anche quando si incontrano differenze radicali. Il nemico non cessa di essere nemico, ma tu smetti di disumanizzarlo. Ma è vero anche l’inverso. Parliamo di crimini contro l’umanità – ma chi li commette, se non l’umanità stessa? Pochi giorni fa ero a Srebrenica, e gli storici orali del Memoriale del genocidio raccontavano: all’improvviso il vicino, il compagno di banco, si trasforma nel tuo assassino (e penso al Rwanda). Anche l’“uomo”, gli “uomini comuni” di Browning, rischia di trasformarsi in nemico. E siccome siamo uomini comuni anche noi, questo è un rischio che corriamo tutti. Perciò il confronto a cui ci si sottopone nel lavoro di storia orale chiama anche a una vigilanza su noi, sui nostri impulsi, la nostra umanità.

L.V: Guardando al lungo percorso che va dalla “piccola x” delle storie individuali alla Storia con la S maiuscola, quale pensi sia oggi lo spazio politico della storia? È ancora un luogo di “lavorazione” del presente o rischia di diventare, anche quando è critica, un esercizio confinato ai margini del discorso pubblico?

A.P: Oggi mi sembra che siamo circondati dall’uso politico della storia pubblica e dall’erosione delle memorie sociali condivise: Atreju inventa un Pasolini di destra, e il Cile dimentica che cosa fosse davvero Pinochet. Decenni di Giorni della Memoria non ci hanno vaccinato dal fascismo e non hanno impedito la persistenza e la crescita dell’antisemitismo e di tutte le forme di razzismo. Più che centralità o marginalità della storia, direi che la questione è la necessità di contrastare con un serio lavoro storico la cattiva storia e la falsa memoria che occupano il centro del discorso pubblico.

L.V: Si parla sempre più spesso della necessità di “decentrare” lo sguardo occidentale. Dal tuo punto di vista, che cosa significa davvero, sul piano del metodo e del racconto, fare storia in modo diverso dalla prospettiva occidentale?

A.P: Intanto comincerei col decentrare l’idea stessa di “uno” sguardo occidentale. L’idea che ci sia “uno” sguardo o “un” punto vista occidentale contraddice uno dei principi di cui l’Occidente va giustamente orgoglioso: il pluralismo. Saremmo più fedeli alla nostra cultura se smettessimo di rappresentarcela come un monolito. Ascoltare e amplificare voci diverse e dissenzienti – le donne, le classi non egemoni, i migranti – all’interno stesso dell’Occidente significa prenderne sul serio i proclami di democraticità. Quanto alla prospettiva, dipende anche fisicamente dal punto di vista. Lo sguardo occidentale oggi è ossessionato dall’islamofobia. A Srebrenica, ottomila musulmani sono stati massacrati da cristiani che si sono dedicati a distruggere le moschee. Stando lì mi sono accorto che in tanti dei crimini recenti contro l’umanità – la strage del Gujarat in India, la deportazione dei Rohingya in Birmania, Gaza e Cisgiordania – le vittime sono musulmane e i perpetratori cristiani, induisti, buddhisti, e l’unica democrazia del Medio Oriente.

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