Metamorfosi urbane:
come la produzione plasma le nostre città


Articolo tratto dal N. 52 di Tante care case Immagine copertina della newsletter

Le città moderne sono, innanzitutto, il risultato di come principalmente si produce. Non si tratta solo di infrastrutture materiali, di fabbriche o di uffici che forgiano lo spazio urbano. È l’intera forma della città a essere plasmata dalle forze produttive. In età contemporanea, ogni mutamento nel “come” si produce ha avuto conseguenze dirette sul “chi” e sul “come” si vive, e dunque sul disegno delle città.

La metamorfosi di Milano 

Milano rappresenta un caso emblematico. Alla fine dell’Ottocento, l’arrivo delle grandi manifatture tessili e meccaniche ne trasformò i margini in poli produttivi: la Bovisa con le chimiche, i cotonifici più a sud, Sesto San Giovanni con l’industria pesante. La città si allungava lungo i binari ferroviari e i canali, modellando quartieri operai e nuove forme di socialità. Il ritmo della fabbrica scandiva non solo la vita degli operai, ma anche quella dei quartieri limitrofi: orari, trasporti, persino la geografia delle osterie e delle case di ringhiera. I decisori politici, di fronte a una crescita tanto rapida, si trovarono spesso a inseguire: le amministrazioni comunali faticarono a pianificare servizi, abitazioni e infrastrutture adeguate, segno di una trasformazione che non poteva essere pienamente governata. 

Il secondo dopoguerra segnò una nuova metamorfosi. Milano divenne capitale industriale del Paese, ma anche della terziarizzazione nascente: alla Fiat di Torino corrispondeva l’Eni a San Donato, la Pirelli a Bicocca, la Montecatini nella chimica, mentre in centro cresceva il mondo delle banche e della finanza. La città si sdoppiava: da un lato la “città fabbrica” dei grandi insediamenti industriali, dall’altro la “città ufficio” che iniziava a occupare i nuovi grattacieli. Non erano due mondi separati, ma due facce della stessa trasformazione produttiva che richiedeva un nuovo terziario per l’industria e per il commercio, nuova mobilità, nuove reti di servizio, nuovi spazi culturali. Anche in questo caso, lo Stato cercò di accompagnare la modernizzazione con strumenti urbanistici e politiche industriali, ma le logiche produttive si rivelarono più veloci e pervasive di qualsiasi disegno politico. 

La deindustrializzazione 

Ogni fase successiva ha lasciato segni visibili. La deindustrializzazione degli anni Settanta e Ottanta non ha determinato soltanto la chiusura delle fabbriche, ma una vera e propria mutazione del tessuto urbano: interi quartieri sono stati svuotati, ridisegnati, reinterpretati. La Bicocca, un tempo distretto industriale, è divenuta polo universitario e culturale; la Fiera Campionaria ha lasciato spazio al quartiere CityLife; gli scali ferroviari si trasformano oggi in nuove centralità residenziali, direzionali, sportive. Queste trasformazioni hanno significato anche cambiamenti nella composizione sociale degli abitanti. Alla Bovisa, con la chiusura delle fabbriche e l’arrivo del Politecnico, molte famiglie operaie sono state sostituite da studenti e ceti medi; all’Isola, lo sviluppo immobiliare legato a Porta Nuova ha provocato una vera espulsione abitativa, con il progressivo allontanamento della popolazione popolare storica. E così il Ticinese, la Darsena, l’area di Porta Genova… 

Il fenomeno è più generale. A Detroit, l’egemonia dell’automobile ha determinato non solo l’espansione urbana, ma anche il collasso di una città incapace di diversificare la propria economia produttiva. Qui il cambiamento produttivo non ha generato espulsione selettiva, ma un abbandono di massa: la cosiddetta “white flight” verso i sobborghi ha lasciato quartieri impoveriti e segnati da profonde fratture sociali. A Manchester, le grandi fabbriche tessili hanno lasciato vuoti che oggi vengono riempiti da musei, spazi culturali, iniziative immobiliari, ma con una progressiva sostituzione degli abitanti originari con nuove classi medie urbane. A Barcellona, la perdita delle colonie nel 1898 costrinse la città a reinventarsi, spingendo verso nuove arterie cittadine, nuove forme di industrializzazione e, più tardi, di modernizzazione culturale. Quartieri popolari come il Barrio Chino e più generalmente il Raval hanno visto nei decenni una trasformazione radicale: prima per l’avanzata delle funzioni produttive e infrastrutturali, poi per il turismo e la residenzialità medio-alta, con la conseguente espulsione delle comunità popolari storiche. A Marsiglia, la distruzione del Panier durante l’occupazione nazista non solo cancellò fisicamente un quartiere, ma sradicò (deportò) intere popolazioni di portuali, commercianti e migranti, sostituite dopo la ricostruzione da gruppi sociali differenti. A Parigi, infine, la riconversione delle aree industriali lungo la Senna e la costruzione di grandi complessi culturali e residenziali hanno accompagnato l’espulsione di parte della popolazione operaia dei docks, rimpiazzata da studenti, funzionari, professionisti. 

Un nuovo passaggio produttivo 

Ciò che colpisce è la continuità storica del nesso fra modi di produzione e forma urbana. La rivoluzione digitale, con il suo spostamento verso la smaterializzazione, sta producendo effetti altrettanto radicali. I quartieri non si costruiscono più attorno alla fabbrica, ma attorno ai centri direzionali, agli hub della logistica, ai campus tecnologici. Le città diventano piattaforme: di servizi, di connessioni, di dati. Eppure, anche in questa nuova fase non cambia la regola di fondo: la città è la traduzione spaziale di una forma storica di produzione, che plasma non solo gli spazi, ma anche chi vi abita e chi viene spinto altrove. In una città in cui le produzioni “tangibili” sono ancora importanti, ma chi “le fa” arriva ogni giorno da fuori: centinaia di migliaia di persone che non sono più in grado di pagare un affitto a Milano. 

Milano, ancora una volta, mostra questa dinamica con chiarezza. Il ridisegno di Porta Nuova, la riqualificazione della Darsena, l’espansione di spazi per il terziario avanzato non sono operazioni neutre, ma la rappresentazione materiale di un passaggio produttivo. Oggi la città si reinventa come nodo di finanza, moda, design, ricerca scientifica. Ma dietro il nuovo skyline si intravede la stessa logica di sempre: il modo in cui si produce determina non solo l’economia, ma anche la vita e le forme dello spazio urbano. Sono forze che trascendono la politica locale e anche quella nazionale, capaci di imporre mutazioni che la politica può solo mitigare o accompagnare, raramente dirigere. 

Le città non raccontano solo il loro presente: custodiscono le stratificazioni di ogni fase produttiva che le ha attraversate. Il futuro urbano si gioca ancora una volta sul terreno della produzione: logistica, digitale, intelligenza artificiale. Le esperienze del passato mostrano come queste forze sappiano ridisegnare spazi, abitanti e vite più in fretta delle scelte dei governi. Leggere nelle trasformazioni urbane i segni dei mutamenti produttivi significa allora comprendere non solo la storia, ma anche il presente e ciò che ci attende. 

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