Negli ultimi decenni il lavoro sembra aver perso la sua centralità simbolica. Non è più il fondamento della cittadinanza sociale e il collante di un’identità collettiva. La promessa di emancipazione attraverso la lotta per obiettivi condivisi si è dissolta dentro un’economia frammentata, reticolare, in cui il valore non nasce più in luoghi riconoscibili ma in interazioni sempre più effimere e impersonali. La cultura del lavoro, fatta di linguaggi comuni, diritti, rivendicazioni e solidarietà, si è progressivamente disarticolata, trascinata dalla trasformazione dei rapporti produttivi e da riforme che hanno moltiplicato le forme contrattuali fino a renderle una giungla normativa.
Il lavoro frammentato
Dall’operaio vuole il figlio dottore all’“occupabilità” la traiettoria è chiara: il rischio è stato individualizzato. Il lavoratore non è più parte di una classe o di un corpo collettivo, ma un soggetto che deve amministrare il proprio capitale umano in un mercato instabile. Le riforme del lavoro dagli anni Novanta in poi – dal pacchetto Treu fino al “Decreto 1° maggio” del governo Meloni – hanno progressivamente introdotto flessibilità contrattuali, con l’obiettivo dichiarato di favorire l’accesso per i giovani o l’adattabilità delle imprese. Il risultato è stato la frantumazione del concetto stesso di lavoratore.
Oggi, in Italia, si contano decine di forme contrattuali: dal tempo indeterminato alle partite IVA – vere e finte – passando per il tempo determinato, il lavoro intermittente, in somministrazione, stagionale, le collaborazioni parasubordinate, occasionali e così via. A questo, con le innovazioni tecnologiche degli ultimi decenni, si è aggiunta una proliferazione di categorie produttive e nuovi settori, ciascuno con le proprie regole, tutele e rivendicazioni. Tutto ciò ha eroso la possibilità di una solidarietà orizzontale, rendendo più difficile condividere il disagio, riconoscersi nella medesima condizione e organizzare conflitto o cooperazione.
Basti pensare che all’interno di una stessa azienda possono convivere il giovane avvocato legato con partita IVA in monocommittenza, un impiegato sottoinquadrato a cui non viene riconosciuto lo scatto di livello e l’aumento salariale, e l’addetto alle pulizie esternalizzato a una ditta specializzata. Questi tre lavoratori si vedono ogni giorno, possono anche prendere un caffè insieme sfogandosi ognuno dei propri problemi, ma nessuno dei tre si immedesima nelle diverse istanze degli altri due. Due di loro non figurano neanche come dipendenti dell’impresa – come potranno condividere una battaglia unitaria in sede di rappresentanza aziendale?
Anche in quest’ottica si può leggere il calo di sindacalizzazione registrato negli ultimi decenni a livello globale. Il sindacato stesso si trova in una crisi strutturale di rappresentanza: non perché i problemi non esistano più o perché i sindacalisti siano diventati meno bravi, ma perché il lavoro è diventato enormemente più complesso. Se la fabbrica fordista permetteva di unificare esperienze e interessi, la piattaforma digitale e la giungla contrattuale li disperdono. Il risultato è una nuova solitudine produttiva.
Una perdita di linguaggio politico
La perdita della cultura del lavoro come bene condiviso si traduce in una perdita di linguaggio politico: non sappiamo più nominare la precarietà se non come condizione privata, psicologica, individuale. Per questo la sinistra si è ritrovata sorda e muta di fronte a questo mutamento.
Terminata con il crollo sovietico l’esperienza internazionalista della sinistra novecentesca, in balia di un capitale sempre più transnazionale e di trasformazioni produttive sempre più globali, le sinistre nazionali si sono trovate sempre più sole e smarrite. L’approccio macroeconomico di lotta alla sovrastruttura ha così ceduto il posto all’intervento normativo microeconomico, che mira ad agevolare l’inserimento del lavoratore marginale ma perde la visione di classe e d’insieme. Di questo cambio di paradigma la sinistra è stata dapprima vittima ideologica e in seguito anche carnefice normativo.
Oggi, che le disuguaglianze di reddito e di opportunità stanno raggiungendo picchi troppo difficili da ignorare, si prende coscienza dell’errore. Laddove possibile tornano le rivendicazioni sindacali più tradizionali, perfino negli USA dove da tempo mancavano. Al tempo stesso, varie realtà si interrogano su come costruire nuovi spazi di senso e di protezione dentro la frammentazione.
Esperienze collettive e nuovo mutualismo
Emergono così esperienze nuove: cooperative di comunità che uniscono cittadini, enti locali e imprese per gestire servizi e beni comuni; piattaforme mutualistiche che redistribuiscono reddito e welfare tra freelance; reti territoriali di innovazione che legano pubblico e privato in logiche di co-progettazione; imprese benefit e società cooperative che mettono al centro l’impatto sociale prima del profitto. Sono forme ibride, spesso piccole, ma portano un messaggio politico forte: il lavoro può tornare a essere strumento di appartenenza e di costruzione di valore condiviso, anche laddove l’identità del lavoro è mutata radicalmente.
Nuove realtà non devono significare però meno tutele. Bisogna saper leggere le nuove soggettività del lavoro e proporre strumenti di protezione universali: proprietà dei dati, welfare portabile, formazione accessibile, garanzie di reddito e rappresentanza. Alcune esperienze di nuovo mutualismo stanno sperimentando questa strada: sindacati di rider, cooperative di professionisti, fondi territoriali per la sicurezza sociale. Dove lo Stato arretra e il mercato disgrega, queste reti ricostruiscono tessuto.
Arginare la frammentazione delle rivendicazioni
C’è chi prova a mettere i due approcci in contrapposizione, sostenendo che le nuove forme di condivisione devono superare la modalità di sindacato più tradizionali. Io non credo che vi sia antitesi, né soprattutto che ci si possa permettere di far prigionieri. Oggi le catene globali del valore, la transizione ecologica e digitale, e la competizione sui tempi e sui dati sono forze troppo destabilizzanti da potersi affidare a un unico modello o perder tempo in diatribe semantiche. Bisogna valorizzare e mettere a sistema tutte le diverse forme che (ri)emergono.
Soprattutto in una rivoluzione digitale come quella dell’intelligenza artificiale, che accentra sempre più la ricchezza produttiva nelle mani di pochissimi, serve più che mai recuperare la condivisione delle rivendicazioni. L’IA in fin dei conti non è altro che una tecnologia che, come nelle precedenti rivoluzioni industriali, aumenta la produttività di un’ora di lavoro.
La questione è come questa produttività viene distribuita. È naturale che la tendenza dei detentori della tecnologia sia di tenere per sé il beneficio, attraverso una riduzione della forza lavoro e un aumento dei profitti. Sta ai lavoratori pretendere la distribuzione di una parte di quella produttività attraverso salari più alti e una riduzione delle ore lavorate.
È quello che è successo in passato, non per coincidenza o per generosità: è stato il risultato di lotte e richieste precise condivise dai lavoratori, organizzati da un sindacato forte e rappresentativo, sostenuti da una parte politica di sinistra senza ambiguità. Oggi il rischio di disgregazione sociale e crescita delle disuguaglianze non è endemico nell’IA, è dovuto al contesto sociale frammentato e disorganizzato.
Per questo serve prendere coscienza del pericolo e rafforzare tutte le forme di rivendicazione, accomunandole e provando ad arginare – sia sindacalmente che legislativamente – la frammentazione contrattuale. In un’epoca in cui la produttività è misura dell’individuo e il valore si crea nei flussi digitali, il lavoro organizzato può e deve tornare a essere una risposta a domande di identità e imprescindibile difesa della coesione sociale.
