Il ritorno dalla guerra è sempre traumatico
Non dipende solo se si torna vincitori o sconfitti. Certo questa differenza conta. Ma poi conta soprattutto quanto quella esperienza obblighi o meno a fare i conti con ciò a cui si è creduto, ovvero se il ritorno a casa sia la ripresa delle precedenti speranze, anche riviste, o sia un rapporto acrimonioso e rigido con le proprie convinzioni. Contribuisce a dare un volto a questi diversi percorsi che cosa è accaduto a casa nel tempo in cui si è stati lontani. Cioè quanto è cambiata la propria casa, ma anche se tornando a casa ci si senta di nuovo «a casa» o se invece si percepisca che il mondo è andato avanti senza che qualcuno avvisasse l’assenza.Non c’è un unico percorso. Per comprenderlo mi servirò di esempi allegorici diversi.
Un primo percorso ce lo fornisce la commedia dell’arte.
È stato Eduardo De Filippo con Napoli milionaria a dare la prima immagine del disagio di chi tornava a casa e non si riconosceva nella casa che trovava. Il primo risentimento che aveva è che nessuno voleva ascoltare la sua storia. Il secondo proposito è riportare la situazione al punto di partenza. Ovvero annullare il tempo trascorso.

Un secondo percorso ce lo fornisce il cinema.
È Oliver Stone nel 1989 con Born on the Fourth of July a proporlo. Si ridiventa cittadini tornando a casa dalla guerra, denunciando la rottura del contratto tra cittadino che ha obbedito e ha subito e lo Stato. Stato che crede di cavarsela ignorandolo, non dandogli voce e spazio.

La rottura è nella vita quotidiana
Come nel caso di Napoli milionaria, la rottura o i conflitti sono con chi è «prossimo». Lo Stato è un ente troppo lontano e con cui non si ha consuetudine. Lo stacco e le fratture avvengono con gli amici, i famigliari, i figli, i parenti, le persone del quartiere o del villaggio con cui si è vissuti fino a prima della guerra e che ora si torna a frequentare e con cui, soprattutto, si vorrebbe parlare, dopo la guerra. Il tema è dunque l’inganno e come quella condizione chieda che sia riscritto il contratto tra individuo e collettività, non in termini di un «rimborso» o di un «riconoscimento» per l’offesa subita, ma come necessità di ristabilire un patto. Ma tornare dalla guerra, implica rimettere in discussione se stessi. Non solo le opinioni correnti, ma anche le proprie. Né De Filippo, né Stone mettono nel conto questo percorso. Ritornare vivi dalla guerra non implica automaticamente aprire un percorso di dialogo. Elias Canetti l’aveva intuito molti anni fa.
La guerra dopo la guerra
Il miliziano fondamentalista che torna casa sconfitto proprio perché sopravvissuto – osserva Canetti in Masse e potere (p. 275) si sente migliore. Anzi, meglio: scelto. Dunque il motto non è «ci ripenso», bensì «non mollo». Una risoluzione che presume non un percorso unico ma vari. Ne propongo due.
Da una parte sta il sopravvissuto che dalla esperienza estrema porta a casa la necessità di essere diffidenti. È Mordo Nahum il greco che Primo Levi descrive nelle pagine de La tregua. «Guerra è sempre» è il suo motto. L’uomo è lupo all’uomo. Vecchia storia, ma anche convinzione che chiede una risposta articolata e non solo la buona intenzione. Per questo Primo Levi rimane in silenzio, allora, ma anche dopo, quando ne scrive a 17 anni di distanza da quella scena.
Dall’altra sta una linea inaugurata un secolo e mezzo fa che ha un volto e un testo canonico. Rispettivamente: Sergej Nečaev e Il catechismo del rivoluzionario. La propria sconfitta nasce dal fatto che il nemico vince perché ha avuto maggiori capacità di ingannare i tuoi, quelli per cui ti batti «per il loro bene». Per prevenire questa eventualità occorre essere inflessibili con i propri. Dunque: militarizzare, terrorizzare e ridurre nel silenzio coloro che sono riconosciuti come «propri» e che la pensano diversamente. Se insistono, eliminarli.
Anche in questo caso il ritorno a casa non è l’inizio di un nuovo percorso. In questo caso più che un dato oggettivo è la conferma di continuare a aderire al patto di fede che si è sottoscritto al momento della discesa in campo. Il suo motto non è «Guerra è sempre», ma «la guerra continua».